Qualcuno di saggio – non ricordo chi, ma giuro che si tratta di un assioma dato talmente per scontato che potrebbe essere stato detto da qualsiasi comico famoso – ha detto che il modo migliore per affinare le proprie doti da monologhista buffo è quello di imparare a recitare come si deve. Di esempi ce ne sono a bizzeffe di comici che eccellono sia sul palco di locali rigorosamente fumosi, sia davanti alla macchina da presa conciati come un’altra persona.
Chris Rock ha recitato con profitto (Fargo), Dave Chappelle era in Robin Hood - Un uomo in calzamaglia e un palmares del genere lo ostenti più che puoi, Steve Martin ha compartimentato le due carriere senza sovrapporle e ottenendo il massimo da entrambe, Jim Carrey, Michael Keaton ed Emma Thompson hanno tutti avuto brevi carriere comiche prima di constatare che erano ancora più bravi a fare altro. E poi ci sono i campioni. Ci sono quattro fenomeni che sono partiti con la stand-up e sono arrivati all’Oscar – pensateci per un momento: dal punto di vista di Hollywood è come dare un Nobel per la chimica a una persona che ha cominciato le sue ricerche annusandosi le scoregge. Ci sono riusciti Whoopi Goldberg e Jamie Foxx (che è un nome d’arte e si ispira al clamoroso comico degli albori Redd Foxx), ma dopo aver raggiunto la fama entrambi hanno mollato il colpo comico. Gli altri due, invece, sono stati in grado sia di fare la storia della stand-up, sia di obbligare gli elegantoni di Hollywood a riconoscere il loro indiscusso talento recitativo con la statuetta placcata oro di un tizio pelato. Uno è Robin Williams, premio Oscar per Will Hunting. Genio ribelle e vabbè, gli vuoi dire davvero qualcosa a Robin Williams?
L’altra persona non la indovineresti mai, se non fosse nel titolo dell’articolo. Diamine agli auto-spoiler. Mo’Nique nasce come comica per scommessa (fatalità la stessa origin story comica di Jamie Foxx), diventa celebre (soprattutto fra il pubblico afroamericano) come co-protagonista della sitcom Strepitose Parkers – una delle rare serie totalmente afroamericane a sbarcare anche in Italia, su Rai2 – assurge al ruolo di prezzemolina dello spettacolo faticando sui palchi della stand-up, in radio, come presentatrice tv e come autrice di libri, e infine ottiene il ruolo di una vita nel 2009 in Precious, che le fa vincere tutto. Se Precious avesse gareggiato all’Eurovision, Mo’Nique avrebbe vinto il premio come miglior attrice non protagonista anche lì.
Mo’Nique ha contribuito al capitolo più recente di storia della stand-up non solo esibendosi sui palchi più significativi, partecipando a due contenitori televisivi che hanno aiutato a espandere la popolarità del genere tra la metà e la fine degli anni ‘90 (Showtime at the Apollo e Def Comedy Jam); ma anche urlando forte “chissenefotte della mia carriera” decidendo di litigare con Netflix (pubblicamente e in tribunale) denunciandone i bias di genere e di colore della pelle. Fondamentalmente: Netflix offre a Mo’Nique mezzo milione di dollari per scrivere e produrre uno speciale, mentre ad Amy Schumer ne offre 11, poi rinegoziati a 13. E non cominciamo nemmeno a parlare dei soldi che prendono i colleghi uomini. Mo’Nique preferisce incazzarsi invece di nicchiare come hanno fatto tutti gli altri suoi pari. E la possibilità di uno speciale comico con Netflix svanisce per anni, rallentando inesorabilmente la sua carriera.
Dunque, dopo più di un lustro passato a litigare con Netflix e dopo essere finalmente riuscita a ottenere ciò che si meritava (uno speciale sul servizio di streaming pagato onestamente), vogliamo davvero biasimare Mo’Nique per aver scritto e performato uno spettacolo che è un’apologia di NMo’ique sin dal titolo, My Name is Mo’Nique? No. Anche perché funziona. Mo’Nique è quella che si auto-definisce una Boss bitch e se mai dovesse incontrare Baby, altro che metterla in un angolo: le cagherebbe direttamente in testa. Lei è nata a Baltimora, che se vi è mai capitato di vedere The Wire sapete essere un posticino di quelli che il dottore raccomanda solo se sapete stare al mondo per davvero – “Sono cresciuta in Real n-word Boulevard, educata da veri n-word. E la prima regola è che non si rompe il cazzo alla gente che non ti ha rotto il cazzo, perché non sapresti a chi stai per rompere il cazzo e potresti finire nella merda”. Lei è cresciuta tra abusi fraterni, insegnanti di sostegno razzisti e impreparati, una madre analfabeta, un padre alcolizzato: vi pare possa farsi cagare il cazzo da chicchessia? Infatti.
Per noi europei, che quella cultura la conosciamo solamente tramite il filtro dell’intrattenimento, la stand-up di Mo’Nique è un viaggio assolutamente esilarante (quasi nel senso chimico del termine) nel vernacolo e nella narrazione afroamericana. In questo spettacolo “shit” vuol dire roba, “motherfucking” serve da rinforzo, “goddammit” da punto, due punti e punto e virgola, mentre la parola che inizia con la enne è un vocativo. O amici. “Bitch” ha la stessa valenza al femminile ed è usato soprattutto per sostituire il soggetto in una narrazione che è autobiografica ma allo stesso tempo in terza persona. È una cultura, una variazione orale dell’inglese, che regala a chi lo possiede e ci è cresciuto un’espressività e una forza quasi impossibili da replicare. Per fare un confronto che secondo me non è così peregrino: sarebbe come togliere a un veneto, un toscano o un friulano le bestemmie. Ci sarà comunque un’espressione orale, ma certamente meno densa di significato.
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