Festival di Cannes 2023
Il TotoPalma di Film Tv
Eddie Bertozzi
Vorrei: Youth (Spring) di Wang Bing
Vincerà: Fallen Leaves di Aki Kaurismaki
Pietro Bianchi
Vorrei: About Dry Grasses di Nuri Bilge Ceylan
Vincerà: Anatomie d’une chute di Justine Triet
Adriano De Grandis
Vorrei: Fallen Leaves di Aki Kaurismaki
Vincerà: The Zone of Interest di Jonathan Glazer
Simone Emiliani
Vorrei: ex aequo Fallen Leaves di Aki Kaurismaki/Perfect Days di Wim Wenders
Vincerà: The Zone of Interest di Jonathan Glazer
Ilaria Feole
Vorrei: Rapito di Marco Bellocchio
Vincerà: Fallen Leaves di Aki Kaurismaki
Marco Grosoli
Vorrei: L’été dernier di Catherine Breillat
Vincerà: Anatomie d’une chute di Justine Triet
Roberto Manassero
Vorrei: About Dry Grasses di Nuri Bilge Ceylan
Vincerà: The Zone of Interest di Jonathan Glazer
Emanuela Martini
Vorrei: Fallen Leaves di Aki Kaurismaki
Vincerà: Fallen Leaves di Aki Kaurismaki
Giona A. Nazzaro
Vorrei: Rapito di Marco Bellocchio
Vincerà: Anatomie d’une chute di Justine Triet
Luca Pacilio
Vorrei: Asteroid City di Wes Anderson
Vincerà: The Zone of Interest di Jonathan Glazer
Emanuele Sacchi
Vorrei: The Zone of Interest di Jonathan Glazer
Vincerà: The Zone of Interest di Jonathan Glazer
Giulio Sangiorgio
Vorrei: The Zone of Interest di Jonathan Glazer
Vincerà: Anatomie d’une chute di Justine Triet
Aldo Spiniello
Vorrei: Fallen Leaves di Aki Kaurismaki
Vincerà: Anatomie d’une chute di Justine Triet
Fabrizio Tassi
Vorrei: Monster di Hirokazu Kore-eda
Vincerà: The Zone of Interest di Jonathan Glazer
Le recensioni dei film in concorso
17 maggio
Monster
di Hirokazu Kore-eda
Un bambino, ferito a scuola, si getta da un’auto. Le storie, dietro, sono tante. La madre lotta contro l’abuso del maestro. L’insegnante pensa a una congiura tra i bimbi. La dirigente difende il nome dell’istituto. E il piccolo? Il trauma è dove non ce lo si aspetta. Kore-eda, dopo la manierata parentesi coreana Le buone stelle, torna con un film che prima si presenta come a tema (la denuncia di una madre in difesa del figlio), poi si apre al relativismo à la Rashomon, alla ricerca empatica delle ragioni di tutti (come in Il terzo omicidio), infine trova il proprio cuore in un coming of age sentimentale che umilia tutti i prontuari queer da festival propinatici negli ultimi anni. Cinema etico, didattico, poetico: non compila automaticamente la sceneggiature, sbaglia sguardo, cambia film, toglie strato dopo strato per trovare, finalmente, un luogo (impossibile?) in cui i suoi protagonisti possano esistere, e non avere paura. Il film, bellissimo, di un maestro.
Giulio Sangiorgio, voto: 8
18 maggio
Youth (Spring)
di Wang Bing
Era dalla Palma d’oro a Fahrenheit 9/11 che un doc non era in Concorso a Cannes. Cioè dal premio alla base dello sdoganamento odierno del documentario. 19 anni dopo, Wang Bing: il regista (con Jia Zhang-ke) a cui gli storici dovranno tornare per capire il mutamento antropologico della Cina di oggi. I temi e le figure sono quelli già al centro di Bitter Money (2016): lo stato degli operai tessili immigrati (dalla provincia di Anhui soprattutto) a Zhili. 15 ore di lavoro al giorno, dormitori squallidi, no tempo libero, amore = lavoro, sogni di famiglia, denaro come discorso dominante (tra loro o con il padrone). In 212 minuti, girati tra il 2014 e il 2019, Wang non cerca una storia esemplare, non pedina per tempi lunghissimi, ma gioca radicalmente su una politica dell’accumulo, sfiancando, non cercando empatia, ma giustapponendo storie minuscole, tutte diversamente uguali, che si riproducono tragicamente in serie, come logica del capitale.
Giulio Sangiorgio, voto: 8
Black Flies
di Jean-Stéphane Sauvaire
Al di là della vita. Si sentono gli echi vicini delle sirene delle ambulanze del film di Scorsese del 1999. New York di notte. Un giovane paramedico alle prime armi e una guardia medica esperta attraversano l’inferno della metropoli. Tye Sheridan vs Sean Penn come Ethan Hawke/Denzel Washington in Training Day. La strada continua ad essere un luogo di battaglia, tra derive documentaristiche e allucinazioni con filtri rossi, rumori assordanti che diventano potenziali soggettive sonore. Sauvaire, al terzo film di finzione, porta sullo schermo il romanzo di Shannon Burke e colpisce duro con un film disturbante, viscerale ed esaltante, che scorre parallelamente alle traiettorie di Drive di Refn e Good Time dei Safdie nella ricomposizione di nuove forme di noir che hanno insieme la follia e l’entusiasmo di spingersi oltre. Tra acqua e fuoco, passato e futuro, un’immersione travolgente oltre i generi che potrebbe lasciare il segno.
Simone Emiliani, voto: 8
Le retour
di Catherine Corsini
Nel ritorno in Corsica, 15 anni dopo averla lasciata per Parigi, della balia Khedidja e delle due figlie adolescenti si intrecciano temi grandi e piccoli: dal conflitto di classe tra il nucleo afrodiscendente e la ricchissima, bianchissima famiglia che lo foraggia, alla ricerca identitaria delle giovani donne cresciute senza padre, alla radicata difficoltà di affermare il meltin’ pot francese. Corsini sfodera una maldestra gestione dei registri (il satirico, pur spassoso, milionario di Denis Podalydes sembra uscito da un altro film), a tratti ammiccando alla sensuosa spontaneità e ai party sterminati di Kechiche, alternando però la libertà esasperata del ritratto adolescenziale “in presa diretta” a ingessati e didascalici flashback. Nonostante le ottime prove del cast, soprattutto delle giovanissime Esther Gohourou e Suzy Bemba, la scrittura è confusa e inerte, anche nella componente queer di cui Corsini è autrice militante.
Ilaria Feole, voto: 4
19 maggio
Les filles d’Olfa
di Kaouter Ben Hania
Olfa Chikhaoui ha quattro figlie: le due più giovani vivono con lei, le più grandi (giovanissime: nate nel 1998 e 1999) «le ha divorate il lupo». Sono Ghofrane e Rhama, ora in carcere perché associate ad azioni terroristiche dell’Isis, ma la docufiction della tunisina Ben Hania non è (solo) la loro storia. Scelte due attrici per interpretare le sorelle “mancanti”, e una diva (Hind Sabri) per far da controfigura a Olfa nei reenactment, la regista compone così un gruppo di donne che inscenano (o rivivono) momenti cruciali della vita della famiglia Chikhaoui, ma che soprattutto - confrontandosi, specchiandosi le une nelle altre, insultandosi talvolta - accendono sullo schermo un forum femminile libero e vitale, giocando a interpretare ruoli da cui sono fuggite, o a cui non si sono mai abituate. Creando possibili versioni di sé, tra qualche lacrima e molte risate: l’arma più forte contro la società patriarcale che tutte le (ri)guarda, con o senza hijab.
Ilaria Feole, voto: 7
The Zone of Interest
di Jonathan Glazer
Quello di Glazer (l’unico regista, oggi, a saper guardare a Kubrick) non è un adattamento del libro di Martin Amis. È un pagare i diritti a un’idea. Ovvero giustapporre una commedia SS all’oscenità del genocidio. Ci sono tre storie nel romanzo. Tre voci. Due ufficiali hitleriani, un sonderkommando. Lui fa sintesi delle prime due. E cancella l’ultima, che rientra in forma di documento. Non detto, ma scritto, in calce, via sottotitoli. Perché non si può distinguere un urlo. Non si può ricostruire la tragedia dell’Olocausto. È un assioma. Un dogma. Qui ridotto all’essenza. Alla banalità. Al minimal. Rimane la commedia umana, fuori, anempatica, con nessun primo piano: la vicenda familiare di un ufficiale del Reich, i problemi legati alla logistica professionale («come gassarli tutti?»), la fatica di conciliare lavoro e famiglia. Un sequel di Il nastro bianco. La banalità del male. Sì. Certo. Ma è il come, a essere il punto. La villetta e il giardino a due passi e una siepe dal campo di concentramento sono osservati da 10 camere gestite da remoto. Come in un reality. In una visibilità asettica, siderale, totale. Odierna. A cui Glazer fa corrispondere tre controcampi. L’immagine mancante dei lager (lunghi minuti di nero, di bianco, di rosso, su colonna sonora infernale). Stralci della storia di una bimba che aiuta i deportati, girati con camere termiche in b/n, in risposta alle favole raccontate dal nazista alle figlie. E un lacerto di documentario su Auschwitz oggi e chi lavora tra i resti. Ogni cosa, nello sguardo, parla la lingua e la tecnica del contemporaneo. Ed è qui tutta la morale di questo seguito di Austerlitz (anche la sua criticità: consideratele, le recensioni negative, sono indispensabili per un’opera tanto radicale).
Giulio Sangiorgio, voto: 10
About Dry Grasses
di Nuri Bilge Celyan
Un campo lungo innevato, in cui cielo e terra si confondono, ci porta dentro il nuovo film di Nuri Bilge Ceylan. Storia di un insegnante che non vede l’ora di andarsene da quel luogo sperduto in Anatolia. Di una ragazzina che lo accusa di “comportamenti inappropriati”. Di una ex militante, insegnante anche lei, presa tra due fuochi amorosi. Straordinaria, da sempre, la capacità del regista turco di costruire immagini potenti, dentro cui uomini e donne si ritagliano uno spazio, per poi emergere sulla superficie del digitale, avviluppati dall’ambiente (la rigidità delle condizioni atmosferiche e delle convenzioni sociali) e insieme quasi respinti, rigettati dal mondo. Con quei dialoghi densi dentro cui emerge la complessità delle relazioni umane. Samet, individualista disincantato, non riesce a riconoscersi in niente che sia collettivo. La sua messinscena di sé finisce letteralmente fuori dal film. L’utopia può limitarsi al vagheggiamento di una fuga? La soluzione sta forse nello sguardo della ragazzina, nel suo mistero (ambiguo anche quello), l’immagine che non siamo in grado di vedere.
Fabrizio Tassi, voto: 8
20 maggio
Banel & Adama
di Ramata-Toulaye Sy
Lui è Adama, un ragazzo timido: quando lo incaricano di diventare il capo della comunità, rifiuta. Lei è Banel, una ragazza intraprendente: rifiuta la convenzionalità dei ruoli femminili, ama l’indipendenza dalla famiglia e vorrebbe andare a vivere con Adama in un paio di torri nella sabbia, che sembrano portare sfortuna. Intanto la siccità uccide il bestiame e il villaggio incolpa la coppia. L’esordio della franco-senegalese Ramata-Tulaye Sy è un’opera fragile, che si deve accogliere con la dovuta benevolenza. Però qui manca davvero l’essenzialità di un disagio, di una precarietà continua. Non c’è polvere, tutto è lindo. Anche gli abiti dei personaggi sono sempre pulitissimi, senza una macchia, una piega sbagliata, come appena usciti da un negozio di moda. Peccato perché i due giovani trasmettono empatia, i temi sono à la page, ma il cuore del racconto è piuttosto arido come il clima.
Adriano De Grandis, voto: 5
May December
di Todd Haynes
Due donne, o meglio una donna, Elizabeth (Natalie Portman), attrice, che deve indagare e scoprire l’enigma della femminilità di un’altra donna, Gracie, (Julienne Moore) dal passato scabroso (è stata in carcere per avere avuto una relazione con un ragazzino di 12 anni, poi divenuto suo marito) per poterla interpretare in un film le cui riprese devono iniziare dopo pochi giorni. Pezzo per pezzo, uno per uno, i segreti di questa donna vengono svelati se non che alla fine la situazione si ribalta e si scopre che il fantasma all’interno del quale eravamo intrappolati era quello di Elizabeth, non quello di Gracie, e come nella parabola della porta della Legge di Kafka, tutto era stato messo in scena per lei. Eva contro Eva, Rebecca, la Hollywood degli anni 50, ma forse in questo caso anche quella degli anni 70 sono da tempo i fantasmi sempre più idiosincratici del cinema Todd Haynes, che con questo film mette un altro tassello in una cinematografia che parla sempre più di ss stessa e sempre meno del cinema che gli sta attorno.
Pietro Bianchi, voto: 7
21 maggio
Anatomie d’une chute
di Justine Triet
Un cadavere tra le neve. È il corpo di uno scrittore in crisi, proprietario di una casa fuori dal mondo (ma nel suo luogo d’origine), abitata insieme alla moglie tedesca, scrittrice di maggior successo, e il figlio, ipovedente a causa d’un incidente (causato dal padre?). Suicidio, omicidio o incidente? Il processo nei confronti della donna (una Sandra Hüller da Palma, già protagonista di The Zone of Interest) comincia. 2 ore e 30 sul potere e i poteri dietro le parole: non udite nel baccano della musica, registrate di nascosto per trovare quelle di un libro, dette in inglese da una tedesca e da un francese, manipolate per uno psicanalista, ricordate, forse scelte, da un bimbo. Il secondo film processuale del festival (dopo Le procès Goldman) è un’opera che mette in luce i discorsi precostituti intorno al ruolo e al corpo della donna nel rapporto di coppia. Cercando la complessità, non la verità.
Giulio Sangiorgio, voto: 7
Firebrand
di Karim Ainouz
Divorato dalla gotta e dall’odio per chiunque non gli dimostri lealtà, l’Enrico VIII incarnato da un rivoltante Jude Law è un mostro dal profilo sinistramente moderno, soprattutto nella pervicacia con cui mette violentemente a tacere le voci femminili che gli danno contro. Si è già liberato di alcune mogli, ma l’ultima, Catherine Parr (Alicia Vikander, impeccabile nella sua natura di ghiaccio bollente), gli tiene testa, sperando di usare il ruolo di reggente per illuminare il regno. Un altro ritratto femminile e di sorellanza per il Karim Ainouz di La vita invisibile di Euridice Gusmão, che traspone La mossa della regina di Elizabeth Fremantle in un dramma storico elegante, ma brulicante di marciume e fluidi corporei, violento e moderno senza bisogno di anacronismi (fino ai titoli di coda, dove esplode PJ Harvey), che con lo sguardo in macchina finale della giovane Elisabetta I pare proporsi come prequel degli Elizabeth di Shekhar Kapur.
Ilaria Feole, voto: 7
22 maggio
Fallen Leaves
di Aki Kaurismäki
Iniziamo con un paradosso. Forse Aki Kaurismäki, oggi, è l’unico regista europeo che potrebbe lavorare egualmente sia per la Shochiku di Ozu sia per la RKO. Il maestro finlandese - ostinatamente - fa cinema con le inquadrature, con un utilizzo essenziale della macchina da presa. È l’immagine a raccontare la storia. I pochi dialoghi sono una increspatura ritmica, un’infrazione musicale. La storia dell’operaio alcolizzato che s’innamora recalcitrante della commessa di supermercato licenziata per avere sottratto cibi scaduti destinati alla distruzione è un haiku che avrebbe potuto essere girato in bianco e nero da Nicholas Musuraca o alla base di un film diretto da John Farrow. Come sempre Kaurismäki compone un film che è un inno alla resistenza umana. E ci ricorda, in ogni inquadratura, in ogni poster e col finale, che il cinema è una faccenda per gente che ama il cinema. Seriamente.
Giona A. Nazzaro, voto: 9
Club Zero
di Jessica Hausner
Ossessione, negazione. Il corpo che rinuncia. La condizione zero del nutrimento, il fraintendimento della fisicità. Come in Lourdes: l’attesa di un miracolo, la fede che spezza la ragione, credere è tutto. Non mangio, dunque sono. Jessica Hausner codifica in geometrie asettiche l’irragionevole desiderio di adolescenti borghesi di trovare un Eden etereo, soggiogati da insegnanti invasati, lontani da famiglie lacerate. Lo sguardo ambiguo di una regista fiera della sua rigidità, anche estetica, sconcerta, ma è impietoso nel mettere in mostra le contraddizioni di una società malata, che si aggrappa all’invisibile. Nel disgusto di una rappresentazione forzata, c’è chi vede la fuffa fragile di un pensiero furbo, in realtà la Hausner si conferma attenta esploratrice di comportamenti umani, con l’esitazione laica necessaria davanti a ogni religiosità che promette vite migliori, club o chiese che siano.
Adriano De Grandis, voto: 7
23 maggio
Asteroid City
di Wes Anderson
Asteroid City è una pièce teatrale, in scena su un palco newyorkese ma ambientata in un deserto del Nevada bidimensionale come gli sfondi di Wyle E. Coyote (in realtà è Chinchon, Spagna, dove Anderson crea il suo West, come faceva Leone); teatro che emula il cinema di genere, come nelle pièce alla dinamite di Max Fischer in Rushmore. L’immancabile Autore andersoniano è Edward Norton, drammaturgo che incista in una convention per bimbi prodigio la sua pièce intimista su elaborazione del lutto e senso della vita: nella cornice in b/n un impomatato Bryan Cranston introduce personaggi e indicazioni di scena rompendo la quarta parete proprio come, sempre a Cannes 76, fa il mentore di Anderson, Scorsese, sul set/palco di Killers of the Flower Moon. Ma qui, negli Usa anni 50 tra test nucleari e dischi volanti da B movie, l’America è solo una bandierina proiettata sulla Luna, e lo spazio da conquistare è quello che separa gli esseri umani; gli incontri ravvicinati di Anderson sono sempre quelli tra individui incapaci di parlarsi (amore e rimpianto finiscono nelle scene tagliate, fuori dalla pièce; ma non dal film), in un racconto che, ancora una volta, parte da una morte, da un’assenza, da una famiglia interrotta, mettendo in scena pure, sotto la «luce chiara e impietosa del deserto», una quarantena, con le finestre a far da filtro a dialoghi già afasici. Un film “piatto” come un cartoon e profondo come il buio siderale, un’opera della maturità per Anderson, che giostra con grazia funambolica i caratteristi di lusso e usa «l’alieno come metafora» di quell’altro da sé con cui si divide un pezzo di vita o di pianeta, e con cui, prima o poi, bisogna fare i conti.
Ilaria Feole, voto: 8
Rapito
di Marco Bellocchio
Con olimpica leggerezza, Marco Bellocchio continua a realizzare film di straordinaria tenuta formale, poetica e politica, come se avesse deciso di imprimere a questo capitolo della sua opera un’accelerazione che di solito è associata alla produzione commerciale. Avendo avuto un rapporto (felicemente) conflittuale con le “isterie del linguaggio”, a partire da Il principe di Homburg il regista è come se avesse abbracciato il piacere del racconto affidando a due titoli chiave come Sorelle Mai e Sangue del mio sangue le insurrezioni della forma e della polemica (mentre Marx può aspettare si offre come un attonito riflesso lacerante di un non detto finalmente esposto alla luce). Portando avanti la sua disamina della famiglia, con Rapito il regista s’inoltra nelle ferit(oi)e della Storia per mettere in scena quella che potrebbe sembrare una sorta di paradossale racconto delle origini di una madre assoluta. Il film rievoca fatti avvenuti intorno agli anni immediatamente precedenti l’Unità d’Italia. Il piccolo ebreo bolognese Edgardo Mortara viene rapito di notte dai soldati di Pio IX e portato a Roma per essere educato alla fede cattolica. Invano i genitori tentano di strapparlo al Papa, mentre il potere temporale della Chiesa subisce i colpi degli insorti. Nel frattempo, Edgardo abbraccia sempre più convintamente il cristianesimo. Bellocchio mette in scena la lotta titanica fra due madri: la Chiesa e la Patria si disputano il corpo e l’anima di Edgardo. La madre, chiaramente, è colei che ha il potere di dare o non dare o di prendere (non a caso il fratello di Edgardo abbraccia la Repubblica). La madre è l’altro della domanda: l’altro cui si chiede. L’incipit con il movimento del soldato e della serva, il nascondino in casa Mortara con il montaggio di Francesca Calvelli che opera come la radiografia di un luogo e di un sentire, il funerale sull’acqua, l’arrivo a Roma sono momenti, fra i tanti, animati da due opposte pulsioni: un’astrazione seducente e profonda (dal punto di vista dei luoghi, dei riti, delle scenografie...) e da uno sguardo realistico, addirittura documentario. Il fantasma della maternità - quella negata, imposta, offesa - che fantasmaticamente echeggia fra le donne del film (la madre, la chiesa, l’Italia da farsi) spingono il film sull’orlo di un abisso vertiginoso. Bellocchio, nel dialogo fra Edgardo e la croce, evitando la tentazione del trascendentale, rinnova la solidarietà nel rifiuto della sofferenza (e parrebbe addirittura reinventare il gotico di Marcellino, pane e vino). Gesù scende dalla croce e abbandona il mondo. Rapito è come una immensa scena (primaria?) mentale, dove il farsi dell’Italia (e del rifiuto della madre-chiesa) si offre come il vagito di un linguaggio da inventare (forse addirittura un controcampo di Nel nome del padre). L’inquadratura finale - costruita come un abisso di solitudine - è probabilmente una delle cose più lancinanti che Bellocchio abbia mai concepito: la dialettica del desiderio in relazione alla mancanza, il rapporto che la madre intrattiene con la propria mancanza, diventa il segno di un esilio invincibile.
Giona A. Nazzaro, voto: 10
24 maggio
La passion de Dodin Bouffant
di Tràn Anh Hùng
Dopo 7 anni di silenzio Trần Anh Hùng ritorna nascostamente, in una coproduzione a dominante francese ambientata sul finire del XIX secolo. Mezz’ora di food porn, interamente dedicata alla preparazione di leccornie, introduce a una prima ora di film in cui restiamo chiusi nella magione in cui vivono Dodin e la sua musa, compagna e cuoca Eugenie. Ma la superficie, fatta di cibo, edonismo e virtuosismi di regia e fotografia, rende solo in parte la sostanza del film di Trần. Il mutare delle stagioni, ognuna speciale a modo suo perché portatrice di una “prima volta”, accompagna, in un loop senza scampo, l’isolamento di un microcosmo anti-mondano, in cui cucinare e assaggiare rappresenta l’essenza della vita anziché un mero contorno. Una celebrazione del piacere gourmand, che suscita affetto per personaggi fieri della propria eccentricità, graziata dagli straordinari Magimel e Binoche, su cui il personaggio di Eugenie pare costruito ad hoc.
Emanuele Sacchi, voto: 8
Il Sol dell’avvenire
di Nanni Moretti
«Lei ci ha parlato dei fatti suoi, di un’esperienza personale molto limitata. Ma questo film non è rappresentativo [dei giovani]». «Infatti», risponde il protagonista di Sogni d’oro, «io non volevo rappresentarli: a malapena rappresento me stesso». Anni dopo Margherita, in Mia madre, si chiede: «Da che parte sta l’immagine? Dalla parte di chi picchia o di chi è picchiato?». L’essere o non essere «rappresentativo» è una domanda insistente, in Moretti. Il problema. Il punto. Cosa rappresento? E come? C’è stato, nei primi film, un io insofferente nei confronti d’un mondo che non lo rispecchia, e a cui risponde con la sua intransigente misura, la propria morale indiscutibile: un comico che è anche (soprattutto?) la solitudine di un numero primo. E c’è stata, anni dopo, l’apertura, un farsi da parte come intimato da Dino Risi («spostati, non vedo il film»), il prendere alla lettera lo «stare al fianco del personaggio» di Brecht: accompagnando i suoi alter ego con personaggi secondari, sdoppiando le prospettive, tentando un dialogo tra ipotesi di sé, i suoi doppi Buy, Trinca, Orlando, Piccoli, e i Nanni e Giovanni che sussurrano o sbraitano a fianco. Pensateci: in Il Caimano sceglie di rappresentare Berlusconi, di prendere su di sé una responsabilità politica, di farsi corpo d’un mutamento antropologico. In Habemus Papam il papa, al contrario, sceglie di non rappresentarlo, il popolo di Dio, decide di non essere un simbolo, ma solo un attore (così come Nanni sceglie di non essere guida politica dei girotondi, a quel tempo, restando solo un regista). Film che sono, letteralmente, quella crisi: «cosa rappresento?». Il sol dell’avvenire è una risposta, una tregua, una proposta di pace. Un ulteriore 8½, un Sogni d’oro senile, la storia di Giovanni che vuole fare un film in costume sullo smarrimento dei comunisti italiani al tempo dell’Ungheria invasa, un’opera che finisce col suicidio mentre il suo matrimonio si sgretola, i produttori rubano, gli attori sono macchiette ignoranti e presuntuose, i giovani registi non conoscono etica, Netflix vuole il fattore «what the fuck?», e lui sogna un film su Il nuotatore di Cheever e una storia d’amore attraverso le canzoni italiane. Ancora. Ancora. Ancora. Un film che è un greatest hits di morettismi, un riciclo accurato di gag, un ritorno continuo del già visto e sentito (le scarpe, i calci al pallone, i brani in auto, la psicoanalisi). Un ritrovarsi (dopo l’allontanarsi di Tre piani) che è un ripetersi parodico, un fan service (a tratti sorprendente, a tratti ritrito) ma non nostalgico: quieto. Perché mentre intorno «tutto finisce» Moretti il moralista decide di rappresentare solo se stesso, facendo sfilare (fellinianamente) temi e figure di quello che è stato, i propri «luoghi comuni». Un posto in cui può cambiare la storia, se solo lo vuole (come Tarantino o Murphy: ma non diteglielo). Lo sa che è un privilegio, in queste macerie, poter bastare a se stesso, fare Nanni Moretti. Nessun suicidio. Un sorriso. Si può accontentare. Ma noi?
Giulio Sangiorgio, voto: 7
25 maggio
L’été dernier
di Catherine Breillat
Anne è un’avvocatessa affermata, lavora con successo su casi giudiziari importanti, conduce una vita agiata con il marito abbiente e le figliolette adottive. Rischia però di mandare tutto in frantumi, famiglia e carriera, quando si abbandona mente e corpo ad una relazione clandestina con il diciassettenne Théo, figlio di primo matrimonio del marito. A dieci anni di distanza da Abus de Faiblesse, Catherine Breillat torna con un nuovo tassello della sua filmografia indomita e lo fa con un’opera lucidissima, per non dire magistrale, sulle asimmetrie del desiderio, la visione e la pulsione dei corpi – il corpo giovane, i corpi maturi – le dinamiche del consenso. Remake rivisto e corretto del danese Queen of Hearts, L’été dernier è un film scevro da ogni moralismo, popolato da personaggi di respingente umanità, elettrizzato dalla performance potente e audace di Léa Drucker.
Eddie Bertozzi, voto: 8
Perfect Days
di Wim Wenders
Un uomo solitario e silenzioso lavora come addetto alla pulizia dei bagni pubblici di Tokyo: si alza presto la mattina, si muove con il suo furgoncino, è meticoloso e gentile, a fine turno si lava in una sauna, mangia sempre nello stesso posto e la sera si corica sereno dopo aver letto un romanzo. Nelle pause scatta foto che poi archivia dentro scatolate numerate: come il regista di Lisbon Story, di cui il protagonista di Perfect Days è un emulo più acquietato, un nuovo angelo che si è rifugiato dal mondo e lo osserva con ostentata meraviglia. I giorni perfetti di Wenders sono come le storie d’amore di Kaurismaki: una fuga dalla realtà (Tokyo non è mai stata così pacifica) e dalla storia (a cominciare dalle scelte musicali senza tempo: Lou Reed, Van Morrison, Patti Smith, Nina Simone...). La necessità di un incanto che contagia lo spettatore e dà alle immagini un’eleganza stupefacente e (vagamente) posticcia.
Roberto Manassero, voto: 7
26 maggio
La chimera
di Alice Rohrwacher
Il cinema di Alice Rohrwacher è un mondo. Un mondo di luoghi personali trasformati in spazi mitologici (qui Civitavecchia); di memorie e fantasie (qui gli anni 80, l’industrializzazione della provincia italiana, le radici etrusche); di realismo documentario che si apre a momenti di magia. Il cinema di Alice Rohrwacher è riconoscibile, vivo, vario, e in La chimera – storia di uno straniero che appartiene a una banda di tombaroli ed è ossessionato da un amore perduto – si apre il più possibile, scava nel sottosuolo, alza lo sguardo verso il cielo, ruota la camera di 360°, interpella il pubblico, segue il delirio di un uomo e sta dalla parte delle sue tante donne. La chimera è forse troppe cose insieme, sospeso fra bellezza e squallore, cupidigia e salvezza, e per questo si perde tra mille idee (femminismo, recupero delle tradizioni contadine, personaggi da fiaba) e scontate reminiscenze lynchiane.
Roberto Manassero, voto: 6
The Old Oak
di Ken Loach
La “vecchia quercia” è il pub di un villaggio vicino a Durham, in drammatica crisi sociale da quando hanno chiuso la miniera nei pressi. Il gestore TJ è tra i pochi che guardano con favore all’arrivo di rifugiati dalla Siria. Loach sceglie di nuovo di imprigionarsi nell’implacabile schematismo del suo sceneggiatore Paul Laverty: immigrati tutti buoni, autoctoni tutti cattivi tranne i superstiti della generazione mineraria, i pochi che lavorano e/o si sindacalizzano, le donne e i bambini. Nessun imbarazzo a sottolineare le cose con l’accetta per indirizzare le simpatie dello spettatore: così, di botto e senza senso, il cagnolino del protagonista viene dilaniato dal cagnone di due disoccupati locali. Compressi da questa e innumerevoli altre pezze di scrittura, anche gli apprezzabili slanci utopici (come la solidale internazionale proletaria che unisce autoctoni e locali) finiscono per rimanere soffocati.
Marco Grosoli, voto: 5
I film in concorso
Firebrand
Storico - USA, Regno Unito 2023 - durata 120’
Titolo originale: Firebrand
Regia: Karim Ainouz
Con Alicia Vikander, Jude Law, Eddie Marsan, Sam Riley, Ruby Bentall, Erin Doherty
Al cinema: Uscita in Italia il 30/11/-0001
The Old Oak
Drammatico - Regno Unito, Francia, Belgio 2023 - durata 113’
Titolo originale: The Old Oak
Regia: Ken Loach
Con Col Tait, Chrissie Robinson, Jen Patterson, Joe Armstrong, Maxie Peters, Dave Turner
Al cinema: Uscita in Italia il 16/11/2023
in streaming: su Now TV Apple TV Google Play Movies Rakuten TV Timvision Amazon Video Sky Go
La chimera
Drammatico - Italia, Francia, Svizzera 2023 - durata 130’
Regia: Alice Rohrwacher
Con Carol Duarte, Alba Rohrwacher, Josh O'Connor, Isabella Rossellini, Vincenzo Nemolato
Al cinema: Uscita in Italia il 23/11/2023
in streaming: su Apple TV Rakuten TV Google Play Movies Now TV Microsoft Store Amazon Video Timvision
Perfect Days
Drammatico - Giappone, Germania 2023 - durata 123’
Titolo originale: Perfect Days
Regia: Wim Wenders
Con Koji Yakusho, Arisa Nakano, Tokio Emoto, Aoi Yamada, Yumi Asô, Sayuri Ishikawa
Al cinema: Uscita in Italia il 04/01/2024
in TV: 26/12/2024 - Sky Cinema Due - Ore 10.15
in streaming: su Apple TV Google Play Movies Rakuten TV Now TV Sky Go Timvision
Ancora un'estate
Thriller - Francia 2023 - durata 104’
Titolo originale: L'été dernier
Regia: Catherine Breillat
Con Léa Drucker, Olivier Rabourdin, Clotilde Courau, Samuel Kircher
Al cinema: Uscita in Italia il 07/03/2024
in streaming: su Apple TV Amazon Video Google Play Movies MUBI Amazon Channel MUBI Timvision
Il sol dell'avvenire
Commedia - Italia 2023 - durata 104’
Regia: Nanni Moretti
Con Mathieu Amalric, Nanni Moretti, Silvio Orlando, Barbora Bobulova, Margherita Buy, Jerzy Stuhr
Al cinema: Uscita in Italia il 20/04/2023
in streaming: su Apple TV Rakuten TV Google Play Movies Amazon Video Timvision Rai Play
Il gusto delle cose
Sentimentale - Francia 2023 - durata 145’
Titolo originale: La passion de Dodin Bouffant
Regia: Tràn Anh Hùng
Con Juliette Binoche, Benoît Magimel, Pierre Gagnaire
Al cinema: Uscita in Italia il 09/05/2024
in TV: 24/12/2024 - Sky Cinema Due - Ore 16.45
in streaming: su Google Play Movies Rakuten TV Apple TV Timvision Now TV Sky Go Amazon Video
Rapito
Drammatico - Italia 2023 - durata 125’
Regia: Marco Bellocchio
Con Paolo Pierobon, Barbara Ronchi, Fausto Russo Alesi, Filippo Timi, Fabrizio Gifuni, Enea Sala
Al cinema: Uscita in Italia il 25/05/2023
in streaming: su Apple TV Rakuten TV Google Play Movies Timvision Amazon Video
Asteroid City
Sentimentale - USA 2023 - durata 104’
Titolo originale: Asteroid City
Regia: Wes Anderson
Con Margot Robbie, Tom Hanks, Scarlett Johansson, Jeffrey Wright, Maya Hawke, Adrien Brody
Al cinema: Uscita in Italia il 28/09/2023
in streaming: su Apple TV Microsoft Store Mediaset Infinity Google Play Movies Rakuten TV Now TV Sky Go Amazon Video
Club Zero
Thriller - Austria, Regno Unito, Germania, Francia, Danimarca 2023 - durata 110’
Titolo originale: Club Zero
Regia: Jessica Hausner
Con Mia Wasikowska, Sidse Babett Knudsen, Sam Hoare, Camilla Rutherford, Amanda Lawrence, Elsa Zylberstein
Al cinema: Uscita in Italia il 09/11/2023
Foglie al vento
Commedia - Finlandia 2023 - durata 81’
Titolo originale: Kuolleet lehdet
Regia: Aki Kaurismäki
Con Alma Pöysti, Jussi Vatanen
Al cinema: Uscita in Italia il 21/12/2023
in streaming: su Apple TV Google Play Movies Rakuten TV Now TV Sky Go Amazon Video Timvision
L'innocenza
Drammatico - Giappone 2023 - durata 125’
Titolo originale: Monster
Regia: Hirokazu Koreeda
Con Sakura Andô, Eita Nagayama, Soya Kurokawa, Hinata Hiiragi, Haruo Tanaka
Al cinema: Uscita in Italia il 22/08/2024
Anatomia di una caduta
Thriller - Francia 2023 - durata 151’
Titolo originale: Anatomie d'une chute
Regia: Justine Triet
Con Sandra Hüller, Samuel Theis, Swann Arlaud, Jehnny Beth, Milo Machado Graner, Saadia Bentaïeb
Al cinema: Uscita in Italia il 26/10/2023
in streaming: su MUBI MUBI Amazon Channel Apple TV Google Play Movies Amazon Video Mediaset Infinity Rakuten TV Timvision
May December
Drammatico - Usa 2023 - durata 113’
Titolo originale: May December
Regia: Todd Haynes
Con Natalie Portman, Julianne Moore, Cory Michael Smith, Charles Melton, Piper Curda
Al cinema: Uscita in Italia il 21/03/2024
in TV: 09/01/2025 - Sky Cinema Due - Ore 21.15
in streaming: su Google Play Movies Rakuten TV Apple TV Now TV Sky Go Timvision Amazon Video
Banel e Adama
Drammatico - Mali, Senegal, Francia 2023 - durata 87’
Titolo originale: Banel & Adama
Regia: Ramata-Toulaye Sy
Con Khady Mane, Mamadou Diallo, Moussa Sow, Binta Racine Sy
Al cinema: Uscita in Italia il 18/07/2024
Racconto di due stagioni
Drammatico - Turchia, Francia, Germania, Svezia 2023 - durata 197’
Titolo originale: Kuru Otlar Üstüne
Regia: Nuri Bilge Ceylan
Con Merve Dizdar, Deniz Celiloglu, Musab Ekici
Al cinema: Uscita in Italia il 20/06/2024
La zona d'interesse
Drammatico - Regno Unito, Polonia, USA 2023 - durata 106’
Titolo originale: The Zone of Interest
Regia: Jonathan Glazer
Con Sandra Hüller, Christian Friedel, Ralph Herforth, Max Beck, Stephanie Petrowitz, Marie Rosa Tietjen
Al cinema: Uscita in Italia il 22/02/2024
in streaming: su Amazon Video Google Play Movies Rakuten TV Apple TV
Quattro figlie
Drammatico - Tunisia 2023 - durata 107’
Titolo originale: Les filles d'Olfa
Regia: Kaouther Ben Hania
Con Hend Sabri, Eya Chikhaoui, Nour Karoui, Majd Mastoura
Al cinema: Uscita in Italia il 27/06/2024
in streaming: su iWonder Full Amazon channel
Le retour
Drammatico - Francia 2023 - durata 110’
Titolo originale: Le retour
Regia: Catherine Corsini
Con Aissatou Diallo Sagna, Virginie Ledoyen, Denis Podalydès, Suzy Bemba, Esther Gohourou, Lomane De Dietrich
Città d'asfalto
Drammatico - USA 2023 - durata 120’
Titolo originale: Black Flies
Regia: Jean-Stéphane Sauvaire
Con Katherine Waterston, Sean Penn, Michael Pitt, Tye Sheridan, Mike Tyson, Kali Reis
Al cinema: Uscita in Italia il 30/11/-0001
Youth (Spring)
Documentario - Francia, Cina 2023 - durata 212’
Titolo originale: Qing chun (chun)
Regia: Wang Bing
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