Il cielo azzurro su Saint-Maur-des-Fossés, le vieux quartier di monsieur Hulot in Mio zio, illumina i suoi abitanti di una luce calda, mentre una musica vivace, da vaudeville, ne accompagna gli avvenimenti minimi.
A Villa Arpel invece, dove vive la sorella di Hulot con marito e figlio, il cielo non si vede mai, oscurato dai volumi implacabilmente squadrati della casa, e la colonna sonora è data dai rumori degli elettrodomestici e dei dispositivi automatizzati collocati ovunque.
Villa Arpel è stata progettata da uno dei collaboratori storici di Tati, Jacques Lagrange (a cui nei titoli di testa del film si attribuisce una generica ‘collaborazione artistica’: è anche co-autore del soggetto e della sceneggiatura), quale perfetto esempio di abitazione modernista à la Le Corbusier: il modello più immediato è Ville Savoye, la residenza privata firmata nella banlieu parigina dal grande architetto, di cui riproduce le linee nette e rigorose ma a cui (volutamente) sottrae personalità e significato.
Costruita interamente negli studi Victorine di Nizza (e poi riproposta tale e quale all’interno del padiglione francese alla Biennale di Venezia del 2014), Villa Arpel è un inno al disagio e alla scomodità, a partire dal vialetto di accesso che costringe chi lo percorre a un tragitto assurdamente arzigogolato per evitare di finire tra le aiuole di ghiaia variamente colorata.
L’interno è allestito come un open space “interamente condizionato” e arredato in maniera scarna (“sembra vuoto”, suggerisce una vicina; “è moderno, è tutto connesso”, le risponde la signora Arpel), ma in modo da riflettere l’influenza che l’industrial design aveva già acquisito tra la nuova borghesia: vi si riconoscono sedute Scoubidou in acciaio e plastica intrecciata, applique di Serge Mouille, un vaso Dubrocq di Pol Chambost e una serie di oggetti disegnati ad hoc da Tati e Lagrange.
All’epoca, a chi chiedeva al regista – accusato di sposare un’ideologia reazionaria – se la sua fosse una posizione polemica contro l’architettura moderna, Tati rispondeva: “Non lo è affatto, semmai sono polemico contro l’uso che la coppia fa di questa casa. Una casa da far visitare, ma non da vivere”. Eppure, guardando Mio zio, è difficile dare pieno credito alle sue parole. Perché Villa Arpel è la degenerazione del modernismo e del funzionalismo.
È un incubo in cui perfino sedersi diventa un’impresa (Hulot si addormenterà sul divano a forma di fagiolo solo posizionandolo su un fianco), dove la tecnologia genera soluzioni ottuse (lo strumento per sterilizzare l’uova e tutti i marchingegni di cui è dotata la cucina rappresentano una geniale, preveggente parodia della domotica ideata decenni prima della nascita del concetto stesso di domotica), ed è impiegata per tracciare un solco tra le classi sociali: si veda la reiterata gag con la fontana a forma di pesce, il cui zampillo è attivato dagli Arpel sono in caso di visite da parte di persone ‘meritevoli’, mentre resta mestamente spento per la vicina di casa erroneamente scambiata per un venditore di tappeti e per lo stesso Hulot.
Non è un caso se, secondo Olivier Assayas, “la rappresentazione degli Arpel e il rapporto con Hulot sono tra le cose più crudeli viste al cinema”. A tracciare la sintesi più convincente tra le parole di Tati e quanto trapela effettivamente dalle immagini, sono allora le parole scritte tempo fa da Frederico Duarte per un articolo apparso su Domus: “Mentre nella scena finale si comprende che la funzione principale di Hulot è semplicemente quella di riavvicinare un padre al figlio, capiamo anche che non è solo nei progetti, negli edifici e tra gli oggetti di questo moderno passato (o in ciò che resta di essi) che vogliamo vivere. Dopo tutto, la nostra storia comune e le nostre storie personali si sono anch’esse stratificate negli edifici, nelle strade e nelle piazze secolari in cui continuiamo a vivere, a lavorare, a studiare e a innamorarci. Lo scopo di monsieur Hulot forse è solo farci capire che ciò che resta può essere importante quanto, o più, di ciò che si progetta”. Amen.
Il film
Mio zio
Commedia - Francia/Italia 1958 - durata 120’
Titolo originale: Mon oncle
Regia: Jacques Tati
Con Jacques Tati, Jean-Pierre Zola, Adrienne Servantie, Alain Bécourt
Al cinema: Uscita in Italia il 06/06/2016
in streaming: su MUBI MUBI Amazon Channel
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