La serie inedita di cui parliamo questa settimana ha uno di quei titoli che, a ripensarci a mente lucida, forse si poteva trovare qualcosa di meno ambiguo. Come quando, nel 2002 agli albori dell’internet come interfaccia onnicomprensivo delle nostre esistenze, qualche volpe giù al reparto marketing della Sony ha deciso di prendere una cafonata d’autore con Vin Diesel che fa le acrobazie sulle moto da cross e intitolarla xXx, condannando ogni futura ricerca distratta su Google a bypassare ottocentomila brutti siti porno.
La nostra serie invece – prodotta e ospitata dal servizio di streaming australiano Stan, di gran successo laggiù (quasi due milioni e mezzo di abbonati) ma ancora senza sbocco distributivo quassù – si chiama Totally Completely Fine, tutto assolutamente ok, ed è un titolo perfetto per la storia che viene raccontata, ma è anche precisamente il commento che non vorresti mai sentire quando chiedi a qualcuno: “ti è piaciuta la serie che ho fatto? Ci siamo impegnati molto sai e credo sia venuta una cosa davvero bella, cosa ne pensi?” “Mah, è tutto assolutamente ok”. Per essere chiari, è così che vengono gli infarti al 72% delle persone che lavorano nel mondo dello spettacolo.
Totally Completely Fine ha un incipit così significativo e sul pezzo che non sfigurerebbe in mezzo alle grandi sequenze d’apertura che di solito selezioniamo per Aurora. Siamo a Sidney. La ventiequalcosaenne Vivian è truccata da soirée eppure è immersa in una vasca da bagno e, sulle note extradiegetiche di una canzone gospel, sta per suicidarsi facendo scivolare l’asciugacapelli nell’acqua – sembra una decisione difficile, ma che aleggia da tempo nei pensieri della giovane donna – appena prima di essere interrotta dal fratello Hendrix, che si fa chiamare al cellulare per avvisarla che loro nonno Walter si è appena spento nel sonno.
Nonno che, peraltro, ha cresciuto i fratelli dopo che i loro genitori sono morti in un incidente stradale, evento da cui Vivian non si è mai veramente ripresa, instradandosi su un percorso di autodistruzione e blanda tossicodipendenza. Gli insistenti messaggi di Hendrix sono una chiamata del destino, per chi è disposto a credere a certe cose; una fortunata coincidenza, per chi si sente più prosaico. Ma il prosieguo dell’episodio pilota potrebbe far ricredere i secondi.
Vivian raggiunge il fratello maggiore – un buon tontolone baffuto che indossa un cappellino da baseball con il celebre slogan del nefando spot anti-pirateria audiovisiva – per la lettura del testamento. Sono due fratelli che non c’entrano niente l’una con l’altro, completamente agli antipodi. Lei è una pecora nera o almeno si sente tale. È cinica, arrabbiata, triste. Lui è un orsacchiotto sensibile, ma soprattutto emotivo. A loro si aggiunge un terzo fratello, John, l’uomo serio e probo, quello che fa fretta al notaio durante la lettura delle ultime volontà del nonno perché deve tornare in ufficio entro le due, nonché quello che si vergogna di quanto la sua famiglia sia fuori dai gangheri.
Dal defunto, Hendrix riceve due mazze da golf, John una poltrona per i massaggi shiatsu e Vivian – che pochi giorni prima aveva appiccato per sbaglio un incendio al food truck del fratello rigido – riceve la casa sulla scogliera in cui abitava Walter e in cui i tre fratelli sono cresciuti una volta rimasti orfani. Questo – e la figuraccia di Vivian alla cerimonia funebre – rappresentano per John la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso. L’ultimogenita dovrà occuparsi da sola (e da disoccupata) della grande casa vista mare ereditata dal nonno.
La casa, però, non è l’unica faccenda ereditata da Vivian. A causa di uno steccato rotto (o meglio: mai costruito), non c’è niente che separi il giardino sul retro dalla scogliera che dà a picco sull’oceano, rendendo l’ex abitazione di Walter un luogo ideale per tutte le persone della zona che hanno la tentazione di togliersi la vita. Tra il vicinato, scopre Vivian, Walter era celebre per aver dissuaso, negli anni, qualcosa come duecento aspiranti suicidi. E, nei diabolici piani di contrappasso post-mortem del nonno, è proprio la nipote con istinti autolesionisti e con un buco nero al posto dell’anima a dover prendere il suo posto come guardiano della scogliera dei suicidi. Una premessa fortemente ironica, nel senso più rispettoso e umano del termine, che introduce un arco formativo di formazione, redenzione e catarsi.
La questione non è tanto se Vivian riuscirà a uscire dall’egotismo in cui si è rinchiusa da quando il dolore per la morte dei genitori ha preso il sopravvento su di lei; la questione è come Vivian riuscirà ad aprirsi all’altro da lei, trovando un modo per tenere a bada i propri demoni mentre condivide questo falso stigma – non c’è niente di cui vergognarsi se la vita, per qualche istante o più, ci appare intollerabile – con altre persone afflitte da demoni altrettanto voraci. Totally Completely Fine è una di quelle serie costruite semplicemente (si fa per dire) sulla brillantezza del soggetto, della scrittura e della sensibilità dei suoi interpreti. A dare fiducia al pilota, tutti questi elementi sono perfettamente al loro posto – specialmente la lunare Thomasin McKenzie nei panni dell’irrequieta Vivian – pronti per far ridacchiare nei momenti meno indicati, ma anche per annodare uno di quei groppi in gola che, anche se ti sforzi, proprio non ne vuole sapere di scendere giù. Molto più che assolutamente ok.
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