Il programma
È pronto a illuminare la città di Bergamo l’IFF - Integrazione Film Festival, dal 9 al 14 maggio 2023, dedicato a interculturalità, identità, inclusione, organizzato da Cooperativa Ruah e Lab 80 film e finanziato da Fondazione Cariplo in collaborazione con Fondazione della comunità bergamasca e Fondazione della comunità bresciana. La 17ª edizione ha come tema “il cinema è luce” e allora il cinema, ricondotto alla sua essenza primaria, diventa un faro che sa orientare nei tempestosi mari del nostro tempo, come spiega il direttore artistico Amir Ra, regista italo-egiziano al quale viene dedicata una retrospettiva (con la proiezione dei corti Io sono Fatou e Origines: Le voyage e l’anteprima mondiale del secondo capitolo Origines: Genesis).
Film d’apertura è Notte fantasma - opera terza di Fulvio Risuleo passata in Orizzonti Extra a Venezia 79, notturna discesa agli inferi di un adolescente e un poliziotto -, mentre il concorso si divide tra cortometraggi e documentari, provenienti da paesi diversi. I dieci corti viaggiano dalla Roma distopica di Tria di Giulia Grandinelli alle strade di Cipro occupate da una rivolta in A Night of Riots di Andreas Sheittanis, passando per la Francia di A.O.C. - Appellation d’origine contrôlée di Samy Sidali, dove due ragazzini di origine maghrebina devono francesizzare i loro nomi prima della scuola.
Tra i cinque doc, due italiani, Maka di Elia Moutamid - sulla docente e giornalista originaria del Camerun Geneviève Makaping (che al festival presenta il suo libro Traiettorie di sguardi - E se gli altri foste voi?) - e Ci sarà una volta di Paolo Geremei, il portoghese My Dear di Aragon Yao, dalla Germania il doc sul biscotto della fortuna Fortune Cook Me di Yang Ni e dal Belgio il racconto di un progetto sportivo e artistico a Bruxelles in Dansaert Legacy di Mouhammadou Sy. Tutti i film saranno disponibili anche online su OpenDDB.
Lo spazio attorno a lui - Intervista a Elia Moutamid
C’è una storia geografica nel cinema di Elia Moutamid, regista, sceneggiatore e attore bresciano di origini marocchine che accoglie in sé un crocevia di culture e lo traspone nel suo lavoro, dal road movie autobiografico Talien (2017) a Kufid (2020), girato in lockdown, fino all’ultimo Maka, un’operazione un po’ differente, scritta da Simone Brioni e presentata all’IFF - Integrazione Film Festival 2023.
L’elemento autobiografico nei tuoi film si fa riflessione sui cortocircuiti tra culture, come quel miscuglio tra italiano, arabo e bresciano...
Il catalogo linguistico nei miei film fa parte del disegno registico, che si sviluppa su un telaio autobiografico, quindi c’è una pianificazione, non improvviso. Ho scelto la via autobiografica perché mi piaceva partire da situazioni molto intime e circoscritte per cercare di raccontare, con un registro ironico, a volte grottesco, mischiato al dramma, un universo che mi circonda. Poi nel mio cinema ho fatto anche una scommessa, quella di mettermi in scena: fare se stessi è maledettamente difficile! Ma avevo bisogno di farlo, e sarebbe stato complicato trovare un attore con le mie caratteristiche, un marocchino che sapesse parlare in dialetto bresciano, e poi le sfumature linguistiche mi fanno penetrare in maniera decisa in profondità. Mi sono davvero accorto dell’ibrido che si è creato in me - che sono un padano ma anche un arabo - dopo i 20 anni, perché la percezione del migrante ha cominciato a cambiare. E mi piace raccontare questo processo con la lingua con cui sono cresciuto, che è il padano, e riflettere invece con l’arabo, che considero la lingua delle passioni, delle emozioni, come ho fatto con la voice over in Kufid.
«Tenere in mano una camera è una grande responsabilità» dici in Maka, un progetto non ideato da te, dove in qualche modo affidi lo sguardo alla protagonista.
L’idea di Maka parte da Simone Brioni, come dico all’inizio del film, e quando mi ha proposto di curare la regia ci ho pensato molto, perché i miei film mi piace scrivermeli, dev’essere un’urgenza mia. Ma quando ho conosciuto Maka (Geneviève Makaping, ndr) è nata un’alchimia tra noi, ci siamo capiti, anche perché lei mi ha ricordato per la prima volta che io ho origini africane. Anche se qui mi metto un po’ da parte, emergono comunque i miei punti di vista, ancora una volta in voice over e in arabo. Soprattutto ho trovato un ibrido in cui mi riconosco: Maka è una camerunense, italiana, calabrese, in Calabria è una specie di Tina Turner prestata al giornalismo, ma dietro quest’apparenza trash ghepardata c’è una vera intellettuale, riesce sul serio a ribaltare lo sguardo, appunto. E anche lo strumento-camera ha questa capacità.
Nel tuo cinema emerge spesso il rapporto tra uomo e ambiente...
In un’altra vita avrei fatto l’urbanista. Disegnare le città vuol dire disegnare le abitudini, le dinamiche di interazione tra gli esseri umani, mi ha sempre affascinato questa cosa. Infatti avevo iniziato Kufid per parlare di gentrificazione partendo dalla mia città natale, Fes, poi c’è stata la pandemia e il film ha preso un’altra forma. Un architetto mi ha insegnato questo: i palazzi dialogano, tra di loro e con gli esseri umani. Io che sono cresciuto in Lombardia, con il cemento armato, da bambino ci parlavo quasi con i capannoni, li vedevo come esseri fantastici che sono diventati poi mostri man mano che crescevo. C’è in corso una metamorfosi dello spazio, ora guardo le mie campagne che vengono stuprate e non posso non raccontare anche questo sentimento.
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