In occasione dei quarant’anni dalla pubblicazione del vinile più venduto di sempre, Blue Monday, il capitolo dedicato ai New Order affronta gli stravolgimenti che la band di Peter Hook, Bernard Sumner, Stephen Morris e, in un secondo momento, Gillian Gilbert ha dovuto subire nella transizione dai Joy Division ai New Order.
Il nuovo ordine fu loro imposto dalla morte per suicidio di Ian Curtis il 18 maggio del 1980, di poco precedente la prima tournée americana della band di Manchester e la pubblicazione di Closer, loro secondo e ultimo album; a partire dal disco d’esordio Movement (1981), la band – che ha da poco annunciato un nuovo tour e che ha ormai un culto, se non pari, avvicinabile a quello che accompagna gli stessi Joy Division (persino un gruppo a loro lontano per sound e stile come i The National li ha recentemente omaggiati con il singolo New Order T-Shirt) – ha però plasmato il suo sound su sonorità techno-rock, fondendo musica dance e quel che rimaneva di quel post-punk di cui erano pochi anni prima stati pionieri.
Chi avrebbe mai potuto sostituire il timbro malinconico e oltretombale di Curtis a pochi giorni dalla sua morte? Se la risposta a questa domanda ha trovato una naturale risposta nella voce suadente di Bernard Sumner, (chitarrista nei Joy Division che ebbe bisogno di tempo per affrancarsi dallo stile dell’ex front-man, del quale inizialmente parodiava cadenza e gravità), il dubbio profondo che attanagliava la band riguardava più che altro l’ontologia del sound: come ri-caratterizzare in poco tempo delle sonorità (chitarre graffianti, voce baritonale, batteria incessante) già divenute immortali? Come trovare una nuova strada mentre il produttore Martin Hannett, tanto fondamentale nella creazione dello stile del gruppo, affrontava la propria dipendenza dalle droghe?
La soluzione si chiamava italo-disco. Musica elettronica e sintetizzatori divennero la nuova religione del gruppo, trainandoli dalle atmosfere fumose e decadenti del primo periodo alle sperimentazioni dance che ne caratterizzeranno il prosieguo della carriera. Brani come il sopracitato Blue Monday, Bizarre Love Triangle, True Faith o Age of Consent sono riusciti a proporsi come pietre miliari della musica degli anni ottanta e degli anni novanta, integrando le influenze elettroniche più disparate: brani come Computer World e Trans-Europe Express dei Kraftwerk o I Feel Love di Donna Summer (e Giorgio Moroder) segnarono il loro nuovo mondo sotto l’egida del manager Rob Gretton, che ebbe il merito di lanciare la band verso un’estetica futuristica in cui l’oscurità veniva sostituita da cromie lisergiche, il dramma esposto da una malinconia pop, accorgimenti grazie ai quali la formazione fu in grado di riattivare il mito dei Joy Division incanalandolo in una nuova estetica.
Integrando materiale d’archivio, estratti dai videoclip della band, found footage dai live e interviste a giornalisti come John Aizlewood dell’Evening Standard, Wild Hodkinson del The Times o Camilla Pia di BBC Radio 6, il documentario parte quindi da un momento di frattura, dalla tragica auto-impiccagione di Curtis, per studiare il repentino evolversi della formazione e delineare il percorso di crescita di uno dei gruppi più influenti della storia della musica contemporanea.
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