Il 6 gennaio del 1898, Annie Jones (la Donna barbuta), Forrest Layman (la Meraviglia senza braccia), Laloo l’indù (l’Uno e mezzo) organizzarono una manifestazione nella quale, insieme ad altri 40 artisti, protestarono per l’uso, nei loro confronti, della parola “freak”, chiedendo al pubblico nomi sostitutivi, tra i quali alla fine optarono per “prodigi”, suggerito dal vescovo di Winchester.
I dimostranti lavoravano nel circo Barnum & Bailey, in tournée a Londra con le sue “curiosità”. È così (e non freak) che P.T. Barnum chiamava le bizzarrie umane che da più di 50 anni esibiva nel suo American Museum di New York, poi nel suo circo, e in teatri, acquari, regge, come quella della regina Vittoria, la prima dei regnanti europei che Barnum visitò in tour nel 1844 insieme al più celebre dei suoi artisti: Charles Stratton, nome d’arte generale Tom Thumb, giovanissimo attore, cantante, ballerino nano, abilissimo nell’impersonare personaggi storici (come Napoleone).
La distinzione tra spettatore e oggetto esposto, tra noi e loro, tra normale e freak, si rivela un’illusione che cerchiamo di difendere disperatamente
Risate difensive
D’altra parte, le “persone piccole” erano sempre state presenze costanti delle corti, intrattenitori, giullari, talvolta consiglieri: se Augusto fece erigere una statua al suo nano preferito Lucius, con Velázquez molti altri pittori seicenteschi ci hanno lasciato i ritratti di buffoni e damigelle, in pose severe e con sguardi inquietanti. Ecco, spesso ci guardano, e quello sguardo spalanca abissi nella nostra consapevolezza e le nostre sicurezze. La risata difensiva si trasforma in brivido: «La distinzione tra spettatore e oggetto esposto, tra noi e loro, tra normale e freak, si rivela un’illusione che cerchiamo di difendere disperatamente e forse anche necessariamente, ma alla lunga insostenibile», ha scritto nel 1978 Leslie Fiedler in Freaks, il libro che, per umanesimo e umanità, per ampiezza di analisi e reciprocità di sguardi, resta il testo fondamentale sull’argomento, sospeso tra superstizione e scienza, tra mito e realtà, tra loro, con le loro vite infelicissime o fortunate, e noi, con i nostri dubbi e le nostre false certezze.
Presagi e prodigi
Considerate segni della divinità, nell’antichità le nascite anomale furono spesso idolatrate, talvolta eliminate, sempre valutate come presagi. Già nel 2000 a.C. esisteva una sorta di prontuario per la divinazione dei “mostri per eccesso”, “mostri per difetto”, “mostri doppi”; “mostro” era la parola usata, da monstrum, “prodigio”, che a sua volta deriva da monēre, “ammonire”. C’era già tutto in quella parola, che poi l’uso pauroso ha reso sempre più negativa: l’eccezionalità e la meraviglia intimorita che portarono, nei momenti bui della caccia alla streghe o delle epurazioni naziste, al loro sterminio; poi alla festosa (e inevitabilmente rancorosa) presenza nelle corti (ed Edgar Allan Poe farà giustizia con il suo temibile Hop-Frog) o, per i più sfortunati, nei tuguri e nei mercati più squallidi delle città (come ricordava Victor Hugo), fino all’epoca vittoriana quando, in Inghilterra e negli Stati Uniti, esplose il fenomeno dei freak show.
Ne erano appassionati la regina Vittoria, Abraham Lincoln e scrittori come Charles Dickens e Mark Twain (le cui storie sono spesso attraversate da minuscole figure) e la vicenda di Joseph Merrick, sfigurato dalla sindrome di Proteo, ci è arrivata attraverso la descrizione di Frederick Treves, il medico che lo salvò dallo sfruttamento (esibendolo però per studi medici): The Elephant Man di David Lynch descrive bene non solo lo stupore, il terrore, talvolta la pietà degli “spettatori”, ma anche la curiosità e il bisogno di rispetto. Un film dal quale trasudano il dolore e la fatica della reciproca comprensione, come accade in un’altra storia vera: quella di Rocky Dennis, un ragazzo americano affetto da leontiasi, portata sullo schermo nel 1985 da Peter Bogdanovich in Dietro la maschera.
Ragazzi selvaggi
O in altri film ispirati a casi celebri di “ragazzi selvaggi” (spesso presenti nelle fiere) a cavallo dell’Ottocento: Il ragazzo selvaggio di François Truffaut, sul fanciullo dell’Aveyron poi educato dal pedagogo Jean Itard, e L’enigma di Kaspar Hauser di Werner Herzog, semiselvaggio cresciuto in totale isolamento o truffatore, comunque un’ossessione del Romanticismo tedesco. Mentre è spietata la storia della Venere ottentotta, Saartjie Baartman, la ragazza sudafricana mostrata seminuda e incatenata in mezza Europa all’inizio dell’Ottocento, narrata da Kechiche in Venere nera.
Naturale palcoscenico novecentesco del freak show, in realtà il cinema ha preferito creare da sé i propri “prodigi”, creature sospese tra manipolazione scientifica, mutazione e leggenda, che hanno nutrito horror e fantascienza: il diverso come non umano, o non completamente, inquietante e duplice, ma non quanto l’alter ego esistente davvero in natura. Finché, a far incrociare il nostro sguardo con quello dei veri “prodigi”, arriva un maestro del fantastico, che da giovane ha lavorato in circhi e fiere, il regista di Lon Chaney e di Dracula, che nel 1932 osa l’inosabile: Freaks, interpretato da attori “diversi”, dal piccolo Harry Earles alle sorelle siamesi Daisy e Violet Hilton, dal microcefalo Schlitzie allo straordinario Johnny Eck, attore, sassofonista, pittore, scrittore, privo degli arti inferiori. Troppo estremo, fu censurato, bandito e rovinò la carriera di Tod Browning. Ma quello sguardo e quei dubbi sarebbero maturati nei decenni successivi nella sensibilità di autori come David Lynch (non dimentichiamo il nano profetico di Twin Peaks), David Cronenberg e Brian De Palma (diversamente ossessionati dai siamesi), Tim Burton, vero anello di congiunzione tra i “prodigi” viventi e le creature fantastiche immaginarie, in particolare i supereroi e soprattutto i suoi tristissimi supermalvagi.
Articolo pubblicato sul settimanale Film Tv 43/2021
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