Mentre in Italia desta scandalo la proposta di legge del deputato di FdI Fabio Rampelli che vorrebbe salvaguardare la lingua e l’identità nazionale attraverso il disincentivo all’uso dei termini stranieri in diversi ambiti sociali, il Garante per la Protezione dei Dati Personali squalifica l’uso di ChatGPT, almeno fino a quando OpenAI non farà chiarezza sulla propria policy in merito all’acquisizione e all’uso dei dati personali per l’addestramento del modello. Si intensifica così anche il dibattito nostrano attorno alla diversità linguistica e al suo rapporto con l’intelligenza artificiale, sui suoi rischi, i suoi limiti e i suoi orizzonti.
Disponibile gratuitamente su arte.tv, Le lingue al tempo dell’Intelligenza Artificiale costruisce un percorso all’interno delle mutazioni lessicali in atto e del loro stretto rapporto con l’intelligenza artificiale, dialogando con un filosofo esperto di etica e politica (Marc Crépon), una linguista alle prese con l’arduo compito di identificare i pregiudizi e stereotipi impliciti nei dati di addestramento gettati tra le fauci degli algoritmi (Stefanie Ullmann) e un’ingegnera esperta di machine learning (Omalabake Adenle).
Che cos’è la lingua? A che cosa serve? E come può essere influenzata dall’avvento dell’intelligenza artificiale? L’approfondimento prova a rispondere a queste domande a partire da un’immagine fornita ai tre studiosi, quella di un libro e di un computer fusi come fossero un unico medium; molti modelli attuali di IA, d’altronde, ci ricorda Adenle, “si appoggiano e si basano quasi interamente su informazioni analogiche accumulate nel tempo” e tra questi dati sono ovviamente comprese anche la letteratura e la saggistica. Sono numerose le preoccupazioni che emergono attorno al rapporto tra algoritmi e lingua.
Innanzitutto, può spaventare la possibile invisibilità di tutte quelle lingue minoritarie per le quali mancano dati su cui addestrare i modelli e che richiederebbero ulteriori costi ad aziende come Meta, Amazon e Google, colossi che rischiano di relegare questi idiomi a un ruolo di subordine nel mondo dominato dall’intelligenza artificiale. Appiattire e unificare il linguaggio e la sua diversità può inoltre portare, secondo il Crépon, all’azzeramento di ogni tipo di inventiva e creatività, traghettandoci da un momento all’altro nel mezzo di uno scenario da fantascienza apocalittica. La programmazione sistematica della lingua è infatti anche alla base, afferma il filosofo, di ogni distopia immaginata durante il XX secolo a partire da 1984 di George Orwell che, pur con il suo modello di statalismo ormai superato, sembra essere ancora in grado di suggerire argomenti di dibattito per il futuro sociopolitico del genere umano.
La programmazione e l’automatizzazione della lingua, il tentativo di privarla di ogni possibile fraintendimento, rischiano di sfociare in una rimozione dell’errore e dell’ambiguità che caratterizza i rapporti umani, sottoponendo gli individui a una forma di regolamentazione delle proprie relazioni imposta da quelle aziende tech che il linguaggio finirebbero con l’imporlo seguendo, esplicitamente o meno, il proprio tornaconto. Sembra quindi appropriata la chiusura del documentario, in cui si torna proprio sul chatbot di OpenAI e in cui vengono nuovamente utili le parole di Adenle: “per me non si dovrebbe pensare solamente a ciò che può ottenere una certa tecnologia, ma anche a cosa può fare la politica, in tal senso.”
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