Questa cosa che gli irlandesi sono così pochi da starci tutti, nessuno escluso, in mezza Lombardia eppure mandano due film all’anno agli Oscar (Gli spiriti dell’isola - The Banshees of Inisherin, The Quiet Girl) e anche in tv fanno praticamente solo cose buone (Bad Sisters, Conversations with Friends, Derry Girls) finirà per farmi impazzire di gioia. Sarà che gli irlandesi sono brava gente, o ancora più probabilmente gente brava a raccontare le storie. Perché altrimenti anche questa miniserie, Holding, non si spiega, visto che è tratta dal romanzo d’esordio (uscito nel 2016) di Graham Norton.
Laddove Norton è un eccellente uomo di spettacolo, esperto speaker radiofonico e sublime conduttore del più importante talk show d’intrattenimento nel panorama televisivo britannico (il Graham Norton Show). Un Fabio Fazio immensamente meno noioso a cui affiderei a occhi chiusi qualsiasi intervista a qualsiasi persona dello showbusinnes, al cui carisma donerei qualche ruolo giusto da caratterista (è già gioiosamente apparso in Another Gay Movie), ma a cui non penserei se dovessero chiedermi qualcuno in grado di scrivere un poliziesco di provincia brillante e di mezza età, che racconti la campagna irlandese aggiornandola alle idiosincrasie di nuovo millennio.
E invece Graham Norton un giorno si è ricordato di essere irlandese e ha fatto esattamente quello, sfornando dal nulla un romanzo che nella sua semplicità rimane impresso. Dice Kathy Burke, attrice e regista di teatro che solitamente rifiuta qualsiasi lavoro dietro la macchina da presa in tv e che ha fatto una grossa eccezione per questa miniserie tratta da Holding: “Ho scelto di infrangere la mia regola di non accettare progetti televisivi quando mi sono resa conto di aver letto il libro di Norton un anno fa e di ricordare ancora i nomi di tutti i personaggi”. Molto semplice, altrettanto corretto. La serie, trasmessa nel Regno Unito da ITV e dunque con la flebile speranza di essere distribuita anche a livello internazionale, rispecchia pienamente i sentimenti della regista, dipingendo con tratti amabili e sinceri quello che capita alla vita ai margini dell’impero quando deve fare i conti con un evento straordinario.
Nel villaggio più noioso e annoiato d’Irlanda – dove non succede nulla e quando succede qualcosa è un problema, persino se si tratta di un dirimpettaio che decide di dipingere di marrone la facciata della propria casa – vengono rinvenuti dei resti umani, ossa vecchie di vent’anni. C’è un vecchio sergente panciuto e remissivo, da pochi anni poliziotto in carica del villaggio, che è in cerca di rivalsa personale e professionale mentre viene trattato a pesci in faccia da chiunque.
C’è un giovane detective dublinese ben vestito, ignaro pesce fuor d’acqua nel mare verde della campagna irlandese meridionale, che rispetta il fragile ego della comunità ospite tanto quanto un maglio sferico rispetta il palazzo che sta per demolire.
C’è la Siobhán McSweeney di Derry Girls, pasticcera casalinga semi-disperata – nonché badante di una madre alcolizzata e incattivita – che vent’anni prima è stata abbandonata all’altare da quello che potrebbe come non potrebbe essere il proprietario dello scheletro dissotterrato.
C’è la quarantenne alla deriva, irrisolta e adolescenziale, che vent’anni fa è stata l’amante delle ossa ritrovate e che ancora oggi piange per quella storia finita.
Ci sono le sue due sorelle maggiori, una che fatica per mandare avanti l’azienda agricola di famiglia e l’altra che pianifica una fuga negli Stati Uniti: dice che è per vivere appieno il suo rapporto con la compagna, ma quando le fanno notare che l’Irlanda “è il posto più gay del mondo” ammette che scappa perché a casa si annoia terribilmente.
E ci sono ovviamente le sciure impiccione, quelle che mantengono a tutti i costi il vuoto decoro del villaggio.
È una miniserie composta di facciate color pastello che trattengono, come dice il titolo, una disperazione esistenziale tenuta a malapena insieme dalla necessità, molto cattolica, di apparire formalmente integri. Di presentare una facciata gradevole, a norma e conforme con quelle del resto della comunità.
Chi non risponde alle aspettative non solo viene additato, ma peggio ancora deve subire la continua punizione di un ancestrale senso di colpa. Tutto questo malessere si sente, in Holding. Si sente nella bulimia, nell’alcolismo e nella rabbia in cui si rifugiano molti dei personaggi. Ma è anche stemperato da un’ironia acuta, da uno spiccato senso di praticità e dal fatalismo di chi è sopravvissuto a qualsiasi cosa – chissà se sono peggio gli inglesi o le carestie – ed è ancora qua a raccontarlo (molto bene), senza piangersi troppo addosso ma cercando di mostrare uno spirito propositivo.
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