“La vecchiaia è un naufragio” sancisce Marie Pamart, dopo svariati tentativi di ricordare la corretta citazione di Jacques De Gaulle tratta da Mémoires de guerre. La protagonista di Il giorno e l’ora, cortometraggio disponibile nella sezione “Ciak al femminile” di arte.tv, è una donna ottantenne, madre della regista Catherine Pamart, a cui è stato diagnosticato un male incurabile, una malattia che rende le sue giornate un inferno e la obbliga alla solitudine, impedendole di frequentare teatri, cinema o anche solo di passare delle giornate all’aperto.
La donna è un’intellettuale e soffre nell’assistere alla propria degenerazione neuronale, alla propria vita relazionale ed emotiva ridotta ai minimi termini. Su tutto, si dice spaventata e atterrita dalla solitudine: “...non ho voglia di ritrovarmi sola, ad aspettare la morte, qui a casa mia, con nessuno che passi di qui per tre o quattro giorni...”. La regista, optando per una forma video-diaristica, decide quindi di intervistare la madre per dar voce al suo dolore e raccogliere i pensieri e le paure che l’hanno spinta fino al punto di chiedere ai figli di accompagnarla in una clinica in Svizzera col fine di ricorrere al suicidio assistito.
Sebbene, infatti, alcune leggi del ventunesimo secolo abbiano rappresentato per il paese delle conquiste in merito al diritto di morire – nella straziante scena di apertura, mentre lucida il nome della madre inciso sulla bara, Pamart cita la legge Claeys-Leonetti, che ha sancito il diritto alla sedazione profonda fino al decesso per persone affette da malattie incurabili, la legge Kouchner, che consente ai malati se proseguire o interrompere le cure e la legge Leonetti, che proibisce l’accanimento terapeutico –, l’eutanasia resta in Francia ancora illegale come nella gran parte dei paesi europei.
Pamart affronta il dramma di una fine imminente con sguardo freddo, cercando di rispondere alla retorica sulla vita che aleggia attorno al tema dell’eutanasia con la crudeltà lucida delle immagini di un corpo vecchio, un corpo che perde i capelli e la cui pelle marcisce, e attraverso le parole di una donna stanca di un’esistenza piatta e di un’identità in cui non riesce più a riconoscersi. Le memorie del tempo passato, rappresentate dalle diverse fotografie, per lo più primi piani in bianco e nero che raffigurano la donna nei suoi anni di gioventù, non diventano uno strumento di ancoraggio al mondo ma piuttosto esacerbano quell’idea di scollamento dalla società e di alienazione da se stessi di cui Marie Pamart parla alla figlia.
La vecchiaia e la malattia fagocitano il corpo. Il corpo fagocita l’identità. Il volto, il volto di una donna in gioventù “molto bella”, dice la figlia alla donna, è diventato una “faccia da scimmia”, come la definisce lei stessa, inorridita dopo essersi guardata e truccata allo specchio. Marie non sente più la dignità di un essere umano e il suo viso, più di ogni altra parte del corpo marchio identitario, diventa il mero polo di un paragone zoomorfo. La macchina da presa parte allora da quel volto per poi soffermarsi su vari dettagli della donna, sulle grinze della pelle dei piedi, sulla bocca digrignata, sulle mani tremanti, restituendo la totalità di un corpo che Marie non percepisce più come suo, quel corpo delle cui sorti vorrebbe poter scegliere in prima persona: “perché non possiamo decidere quando morire? È assurdo”.
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