Quando Nikita viene rimproverato dalla madre per aver utilizzato troppo detersivo, un quantitativo eccessivo di sgrassatore e tutte le spugne presenti in casa per lavare i piatti, il ragazzo si vede allungare da lei venti euro. Sembra deluso dalla cifra e dal fatto che la madre non lo guardi nemmeno in faccia, ma alla sua prima rimostranza “Mama”, la madre del titolo, chiude la conversazione seccamente: “Impara a essere efficiente, non voglio ripetertelo”.
Nikita, però, ama la techno e la techno, soprattutto nella sua diramazione hardcore, da un punto di vista culturale è rivolta ai ragazzi come lui, ai “giovani proletari dei bassifondi urbani e delle periferie anonime che vivono per il weekend”, per dirla con Simon Reynolds. La musica techno, oggi fenomeno pervasivo, pop e onnipresente, ha sempre parlato innanzitutto ai soli, agli alienati, e fonda la sua ritualità su una dimensione collettiva legata al desiderio di comunione, all’esorcismo della solitudine. C’è quindi un filo rosso a unire indissolubilmente techno e inefficienza, techno e sospensione delle coercizioni, techno e desiderio di evasione.
Ma evasione da cosa o da chi? Per Nikita, dal buco nero che sembra risucchiare ogni luce alla sua vita: un buco nero formale, quello di uno schermo che pare voler collassare, schiacciare le pareti della casa dove abita con la famiglia, stretta nel francobollo di un aspect ratio dal rapporto 1:1 che soffoca madre e figlio in un richiamo del Mommy di Xavier Dolan; ma anche un buco nero allegorico, quello dell’incomunicabilità, dell’incomprensione tra genitore e figlio.
Lei, da un lato, presentata dal regista in abito blu, tabagista, deperita, esasperata, che sembra guardare a Nikita solo in chiave funzionale, valutarlo per le sue prestazioni da lavoratore e figlio, e il ragazzo dall’altro, vestito di rosso, figlio senza padre e fratello premuroso con il sogno di scappare a Berlino (“Berlino è la techno, la techno è Berlino” spiega al fratellino con uno slogan sillogistico all’inizio del film), soverchiato dalla povertà e dalle responsabilità.
Due corpi avvolti in cromie di sangue e acqua – vestiti e colori che richiamano quell’iconografia refniana fondamentale per tutto quel cinema contaminato da beat elettronici e luci al neon –, corpi che faticano a toccarsi, costretti in una tridimensionalità perversa e allucinante, una tana senza via d’uscita che Nikita proverà a spaccare, rompendo letteralmente la quarta parete in un impeto di rabbia.
A questa gabbia relazionale, al vetro della macchina da presa che mostra le crepe ma non va in frantumi, non sembra esserci rimedio se non attraverso la liberazione estatica della musica elettronica, quella dimensione di allontanamento dal mondo, non-luogo in cui convivono tattilità e alienazione, solipsismo e comunicazione, l’unica realtà in cui il volto di Nikita non viene ferito dagli schiaffi della madre ma viene baciato dalle labbra di un coetaneo.
Presentato alla settantottesima Mostra del cinema di Venezia, Techno, Mama, questo pluripremiato corto del lituano Saulius Baradinskas si muove a cavallo tra il dramma da camera e l’allucinazione orrorifica, traendo spunto dal cinema di Gaspar Noé (di cui ricalca le improvvise esplosioni al neon dei titoli di testa e le sezioni oniriche entro le quali dona ai corpi la libertà di dare sfogo ai propri drammi e ai propri desideri attraverso la danza), per restituire lo spaccato di una solitudine e il profondo bisogno di contatto umano.
Techno, Mama su arte.tv
Il film
Techno, Mama
Cortometraggio - Lituania 2021 - durata 18’
Titolo originale: Techno, Mama
Regia: Saulius Baradinskas
Con Motiejus Askelavicius, Neringa Varnelyte
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