La regola dell’amico non sbaglia mai, cantava quel signore di Pavia che si è sempre impegnato tanto per far sembrare figa la vita nei bar di provincia – non è fighezza quella della vita nei bar di provincia, caro Max Pezzali, sono in egual misura lotta vana all’entropia, entusiasmo e disperazione alcolica dettati dalla vertiginosa consapevolezza che nessuno sa della tua esistenza. A Hollywood invece, dove l’entusiasmo e la disperazione alcolica sono dettati dal vertiginoso desiderio di essere osservati da tutti, hanno un’altra regola che non sbaglia mai, quella del typecasting. Se sei giusto per un ruolo, non lo cambierai per niente, mai non vorrai, rovinare il tuo conto in banca. Fra gli attori, specialmente televisivi, il typecasting – ovvero il rimanere incastrati sempre nello stesso ruolo perché a quanto pare alla gente viene l’ansia se vede un beniamino fare cose diverse dal solito – provoca più pieghe da tristezza nel botox dell’essere costretti a pranzare in un posto privo di opzioni senza glutine.
Joel McHale, a essere onesti, sembra uno dei meno intristiti di sempre da questo particolare tipo di anatema – una maledizione che comunque ti fa diventare molto ricco e molto famoso. Io dico che la serenità gli viene dal distacco umoristico. E il distacco umoristico gli viene da un inizio di carriera dedicato alla stand-up comedy, che è stata per anni la sua vocazione nonostante il fisico da modello di intimo. Svezzato da comici che tutto il pelo sulla lingua se lo sono trapiantato sullo stomaco, McHale si è adagiato perfettamente nel ruolo del bello bello in modo assurdo e consapevole di esserlo, dunque smargiasso, furbetto e arrogante; ma che però, allo stesso tempo, non ha nessun problema a essere il bersaglio grosso di molte punchline. Con l’aiuto di un vecchio satrapo del calibro di Dan Harmon, McHale ha costruito attorno a quell’archetipo di adone che si sente superiore al resto dell’umanità una personalità da lupo solitario brillante, cinico e menefreghista che invece viene coinvolta nella costruzione che porta alla punchline. Il risultato è Jeff, il personaggio di Community che ha dato popolarità (e qua e là anche status di culto vero e proprio) all’ex comico bello bello in modo assurdo, il quale ne ha approfittato per lanciare una carriera televisiva (anche se non soprattutto da presentatore) ottima per pagare un sacco di mutui.
Ma per quanto riguarda strettamente il mestiere di attore – complice anche una genetica benedetta che non sembra voler mollare il colpo – McHale non ha ottenuto troppe soddisfazioni dopo la (travagliata) chiusura di Community. Il demone del typecasting l’aveva toccato e lui c’è stato. Oltre a una presenza non troppo memorabile sul grande schermo, a testimoniarlo ci sono i (non particolarmente) numerosi ruoli da protagonista che gli hanno assegnato sperando di ripetere la magia di Jeff. In realtà parliamo di due sole serie. The Great Indoors (2016), sitcom che spreca McHale, Christopher Mintz-Plasse e Stephen Fry facendo praticamente sempre la stessa battuta su quanto siano strani i ventenni dal punto di vista dei cinquantenni; e questa Animal Control, scritta per Fox (versione generalista non Disney) da tre carneadi, che è uscita da poco e che dall’episodio pilota, vivaddio e viva McHale, appare chiaramente scritta con più garbo rispetto a quella cafonata di The Great Indoors.
La cornice è quella, abbastanza bizzarra e gustosa, di una delle sedi della sezione tutela animali del comune di Seattle. I cari vecchi accalappianimali, ovvero quei dipendenti pubblici che intervengono quando ci sono problemi o contenziosi riguardanti bestie, bestioline o bestiacce. Può essere per qualsiasi cosa: aiutare un furetto a incendiare un appartamento, multare una signora che vende di straforo uova di struzzo, soccorrere il branco di conigli che per sbaglio ha mangiato i funghi psichedelici del padrone o anche recuperare un bravissimo canetto che per tre giorni è rimasto fedelmente accanto al corpo senza vita del padrone. Aaaw.
Ecco: come volevasi dimostrare, gli animaletti sono solo un geniale stratagemma pensato per innalzare l’intrattenimento della sitcom (e le difficoltà delle riprese), oltre che per avere svariati spunti comici da sfruttare alla bisogna. Oltre la cornice c’è una classica, seppur ben fatta, commedia sul posto di lavoro. McHale è il bel solitario misantropo che guarda tutti dall’alto al basso ma senza troppa cattiveria, il quale viene accoppiato a un novellino ex snowboarder con l’entusiasmo di un labrador a cui non hanno ancora diagnosticato la displasia dell’anca. Aaaw. Il resto dei colleghi, invece, prende più ispirazione da una serie come Brooklyn Nine-Nine che dal capostipite del genere The Office. In ogni caso, la prima puntata di Animal Control atterra integra e senza fare brutte figure, faccenda rara nelle sitcom di questi tempi.
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