È uscito su Netflix il nuovo speciale comico di Jim Jefferies: High & Dry, ovvero fatto di erba ma sobrio dall’alcol. Una domenica pomeriggio australiana, in pratica. È il suo quinto speciale pubblicato dal servizio di streaming che ricopre di denaro contante qualsiasi performer di stand-up abbia dimostrato di avere più di 42 fan; ed è il decimo in assoluto per il comico australiano che, mannaggia a lui, poteva scegliersi qualsiasi nome d’arte semplice e intuitivo e invece ne ha pescato uno che devi sempre ricontrollare come l’hai scritto perché ha una serie di grafie diverse ma omofone. Sto parlando di Gim ovviamente. Jym. Jim. Nonostante il curriculum notevole – non si arriva a dieci speciali comici senza avere il successo necessario a convincere un editore a produrtelo – Jim Jefferies, fra i comici di stand-up che hanno goduto di maggior successo negli ultimi quindici anni, è decisamente il meno conosciuto in Italia.
Non è né Gervais né Chappelle, che anche se non segui la stand-up ne hai sentito parlare perché, oltretutto, sembrano trarre piacere dall’atto di sollevare polveroni perfetti per titoli di giornale compilati da una persona che non ha mai visto un monologo comico e deve decontestualizzare una battuta. Non è Louis C. K. e non si è sputtanato urbe et orbi imponendo il proprio onanismo su donne più o meno inermi e sicuramente non consenzienti – in realtà (come tutti i comici) lo impone il suo onanismo, ma è più una questione figurata che letterale. Non è Bill Burr, che tra cinema (The King of Staten Island) e tv (Breaking Bad, F is for Family) la sua faccia e la sua voce le ha fatte conoscere anche al di fuori dei club (la senti la cappa di fumo che emana dalla parola?) e del circuito televisivo statunitense. Jim Jefferies invece no. Di cinema ne ha fatto poco e male. In tv è andata un po’ meglio, volendo, ma la (bella) serie che ha creato e interpretato, Legit, non è mai arrivata da noi. E il suo talk show in seconda serata simil John Oliver (The Jim Jefferies Show) è durato giusto una sessantina di puntate e se lo sono calcolato quanto basta di là dell’oceano, figuriamoci qua dove il genere ci appartiene poco.
Jim Jefferies è Jim Jefferies e basta, anche perché non c’è bisogno di tanto altro. È un concentrato di australianità in purezza, un cazzone (affettuosamente parlando) rilassato ma preciso a cui non è mai sembrato importare più di tanto di diventare famoso più di quanto già non fosse. Bisogna anche sapersi accontentare, amico. E comunque, fino a prima della pandemia, Jefferies era troppo impegnato a essere un australiano balordo costantemente sbronzo – sbronzo come un australiano che festeggia il fatto che è arrivato il pomeriggio – e in tour con i suoi monologhi per potersi concentrare sull’ambizione di fare la stessa quantità di film brutti di Kevin Hart.
Anche perché Jefferies è diventato famoso quasi per caso, dopo essere diventato virale in due momenti ben distinti della sua carriera. Nel 2007, quando era un semi-sconosciuto ed è stato aggredito sul palco dall’unica specie in grado di essere più sbronza di un australiano, ovvero un inglese di Manchester. E nel 2014, quando da un suo speciale (Bare) è stato estrapolato un lungo bit in cui mette alla berlina, con grintosa paciosità, l’incomprensibile filosofia americana a proposito delle armi da fuoco, intercettando un’incazzatura dal basso che cominciava a montare sempre di più e diventando per un breve periodo il paladino di un modo inedito, per gli americani, di essere arrabbiati. Il modo australiano, sorridente e sornione.
Senza questi due ganci virali, non so mica se Jefferies sarebbe diventato altrettanto famoso. Non perché non sia bravo. Anzi. Proveniente da un’educazione teatrale (seppur interrotta), Jefferies è sempre stato quel comico dal tono e dalla modulazione che fanno pensare a una cadenza più che a un testo preparato. Invece la sua è stand-up finemente cesellata e lo si intuisce dalla lunghezza dei bit, dalla struttura complessa con cui li costruisce, colma di parentesi, deviazioni, rimandi. Il motivo per cui Jefferies non sarebbe diventato piuttosto celebre senza l’aiuto di quei due video è che la sua è, a tratti, una comicità da troll. Da uno che si diverte a provocare qualsiasi sfumatura di benpensante – anche gratuitamente se capita – con interventi a gamba tesa di umorismo crasso e, volendo, anche violento.
C’è da dire che tutto il fuoco di fila che rivolge sugli altri – nel caso di High & Dry: sulla moglie – Jefferies non ha problemi a direzionarlo anche su se stesso. Ma il comico cresciuto a Sidney è anche uno che si diverte molto a giocare con il fuoco. In questo speciale ogni tanto lancia, con il solito tono mellifluo da australiano che sta grigliando in giardino, battute cattivissime anticipate sempre dalla premessa “visto che siamo a uno spettacolo comico”. È un modo di prendersi gioco non solo dei complementi oggetti comici in sé, ma anche di tutta la sarabanda che sta dietro a ogni battuta che indigna la giusta quantità (o qualità) di persona. Tutta la prima metà di High & Dry, poi, si concentra sulla sessualità. La seconda invece diventa quasi pornografica. Più che altro si evolve nell’audiolibro di un film porno letto da uno con un forte accento australiano. E qualsiasi cosa detta con un forte accento australiano suona amichevole e ti fa pensare a gente che va in ufficio in infradito, poi va in spiaggia a fare surf e poi torna a casa a schiacciare ragni giganti senza battere ciglio.
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