«Perché mi stai aiutando?». «Pugnalarti non ha funzionato». Una delle sue (poche) risposte, Station Eleven la scioglie nella spiazzante semplicità di questo scambio di battute, nell’episodio finale. Precedentemente, ha posto molte domande, sia narrative sia filosofiche, invitandoci a ricostruire i destini incrociati dei suoi personaggi e insieme a interrogarci sul senso più profondo della parola “sopravvivenza”.
«Sopravvivere non è sufficiente» è il motto e il credo della compagnia itinerante di cui la protagonista Kirsten (Mackenzie Davis) è anima e stella: nell’anno 20 dopo che una devastante pandemia d’influenza ha ucciso 999 esseri umani ogni 1.000, la Travelling Symphony percorre ogni stagione la stessa strada attorno al lago Michigan, portando in scena Shakespeare (a ogni giro un’opera diversa, questa volta - e non sarà casuale - Amleto) nelle piccole comunità costituitesi dopo il disastro.
Su un palcoscenico shakespeariano, d’altronde, è cominciato tutto: una sera, in un teatro di Chicago, un celebre attore cinematografico (Gael García Bernal) muore d’infarto mentre sta recitando il Re Lear, l’inquieto spettatore Jeevan (Himesh Patel) si precipita d’istinto ad aiutare e nella concitazione che segue si trova a doversi occupare della piccola Kirsten (Matilda Lawler), impegnata nel ruolo di Goneril bambina. E il mondo sceglie proprio quella notte per finire.
Già tra gli sceneggiatori di The Leftovers (di cui Station Eleven ha più di un’eco) e ideatore di Maniac, Patrick Somerville adatta il bestseller Stazione undici di Emily St. John Mandel - quel tipo di libro che si guadagna facilmente l’appellativo “infilmabile” - affidandosi a una struttura seriale precisa e alternata: gli episodi pari seguono la Travelling Symphony nel domani postpandemico, gli episodi dispari riavvolgono il tempo ai giorni prima o immediatamente dopo la catastrofe per approfondire singoli personaggi, mutandoli di volta in volta da comprimari a protagonisti, e viceversa.
Un puzzle che vive, oltre che di agnizioni, collegamenti, rivelazioni di trama, soprattutto di riflessi e rimandi tematici ed estetici, con il passato che si rispecchia nel futuro, mentre il futuro cerca disperatamente di capire cosa farne, di quel passato, e dei suoi resti. A contribuire all’incanto di Station Eleven è la materializzazione di una postapocalisse tangibile, letteralmente edificata sul riutilizzo alternativo di oggetti e luoghi che, dopo l’annientamento quasi totale della vita umana, hanno perso il proprio scopo originario per guadagnarne un altro: le automobili trainate dai cavalli, i costumi di scena ornati di rifiuti, il terminal di un aeroporto che diventa una micro città, il negozio di letti e materassi riqualificato a ospedale. Nell’andirivieni temporale, nel filo di mistero intessuto attorno a un graphic novel (meta)intitolato Station Eleven che ossessiona chi lo legge e si trasforma in profezia, nell’illustrare la distanza brevissima che separa la “cura” dal “dominio”, nel credere al potere salvifico - perché comunitario - dell’arte, la miniserie, in tutta la sua delicatezza eterea, ha un coraggio incosciente e incendiario: quello d’indicarci la bellezza del dopo, la meraviglia nella distruzione, la speranza dentro la fine.
La serie tv
Station Eleven
Fantascienza - USA 2021 - durata 44’
Titolo originale: Station Eleven
Con Mackenzie Davis, Himesh Patel, Shawn Gordon Fraser, Matilda Lawler, Mercedes Blanche, David Wilmot
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