Ogni tanto capita di scherzare su quanto siano tossiche certe frange estreme di gente appassionata a faccende che riguardano il mondo dello spettacolo. Le famigerate fandom, per dirla con una sola parola ma sensibilmente più triste, ovvero le curve da stadio che a undici ragazzi con le cosce grosse e depilate e i gagliardetti tatuati sul garrese preferiscono My Little Pony - L’amicizia è magica. E badate bene, non è mai l’oggetto dell’ammirazione a essere in discussione – sia gli appassionati di pallone sia quelli di Princess Twilight Sparkle e Fluttershy sono certamente capaci e abili, ce li vedo benissimo la mattina che si allacciano le scarpe da soli senza chiedere a nessuno. È l’intensità dell’ammirazione a essere preoccupante e a farti chiedere se queste persone abbiano degli amici al di fuori del fan club che possano loro dire: va tutto benissimo e ti vogliamo bene, ma un po’ meno.
Quanto sono tossici i fandom? E quanto si allontanano dal messaggio che il loro oggetto d’ossessione vorrebbe comunicare? I miei preferiti sono quelli di Star Wars, che idolatrano un universo abitato da cinquecento miliardi di specie diverse che vivono una a fianco all’altra e di solito passano il tempo a combattere contro il fascismo, mentre i loro fan sono talmente razzisti da non poter concepire uno stormtrooper nero o una co-protagonista asiatica. Chiedere a Kelly Marie Tran o a John Boyega per conferma. Senza l’insopportabile fandom di Star Wars, però, secondo me non avremmo mai avuto nemmeno la serie inedita della settimana, che si chiama Poker Face, sta andando in onda su Peacock e che se continua come è iniziata bisogna segnarsela sul post-it da attaccare al frigorifero perché abbiamo già una delle serie più da spettino dell’anno.
Però scusa, cosa c’entrano una manciata abbondante di brutti fan di Star Wars con Poker Face? Vi racconto una breve storia. C’era una volta un giovane regista di nome Rian Johnson, uno a cui ci piacevano un sacco i films, i noir di Dashiell Hammett e i gialli di Agatha Christie. Con pochi soldi e molto entusiasmo, il giovane Rian Johnson si fa strada nel cinema scrivendo e dirigendo film a orologeria, meccanismi con mistero modulati di volta in volta a seconda degli archetipi del genere che voleva sfruttare: che fosse il noir (Brick), il caper movie (The Brothers Bloom) o la fantascienza (Looper), l’importante era che ci fosse il modo di avvolgere lo spettatore in un mistero che viene svelato progressivamente.
Tutto questo successo permette a Rian Johnson di farsi notare e di approdare alla corte di J. J. Abrams, che gli affida l’episodio di mezzo dell’ultima trilogia Star Wars, Gli ultimi Jedi. Johnson fa il film nettamente migliore dei tre, ma viene ricoperto di contumelie per aver cercato (rispettosamente) di affrontare la questione di vista da un punto meno banale e meno trito del solito. Rian con la ipsilon menomata la prende con la giusta sensibilità, contando che si tratta di persone adulte che si prendono la briga di insultarti la mamma sui social network perché hai diretto in maniera secondo loro sbagliata il film a cui sono affezionati. Rian l’ha presa talmente bene che una volta archiviato Star Wars, non solo si è ritirato (momentaneamente) dal business delle grande saghe con i fandom violenti – che sono un po’ come la droga, se ci finisci in mezzo (vedi Jon Favreau, Dave Filoni, i fratelli Russo, James Gunn) poi è difficile uscirne – ma è proprio tornato a fare le cose che piacciono a lui senza neanche passare dal via. Addio super-blockbuster che devono essere dritti come un fuso altrimenti la gente si confonde; bentornati film con i misteri convoluti da svelare, con le sceneggiature che paiono l’enigma della sfinge e con ottimi attori che si prestano al gioco. Benvenuto a Cena con delitto, ovvero a Knives Out, che nemmeno troppo ironicamente ha avuto talmente tanto successo da diventare a sua volta una saga.
Ebbene: Rian Johnson aveva talmente tanto bisogno di purificarsi l’anima dopo Star Wars: Gli ultimi Jedi che, nel tempo libero fra i due Knives Out, ha trovato anche la voglia di scrivere e realizzare dieci puntate di una serie tv per Peacock che praticamente sono altri dieci Knives Out, con in sottofondo una trama orizzontale (introdotta dal mistero della prima puntata) che andrà avanti per tutta la stagione. Poker Face è la storia di Charlie detta Chuck – Natasha Lyonne che interpreta praticamente se stessa, ovvero una persona tanto brillante e talentuosa quanto balorda – che di mestiere non fa l’investigatrice privata di lusso e sicuro successo, bensì campa alla giornata lavorando come cameriera a Las Vegas da quando lo scaltro e brutale proprietario di un casinò (Ron Perlman) ha scoperto il segreto che le faceva vincere ogni singola partita di poker: Charlie è in grado, istintivamente, di capire se una persona sta mentendo di proposito. Ci azzecca sempre, senza nemmeno bisogno di pensarci su.
Dopo l’incipit di dieci minuti che si conclude con l’assassinio da risolvere entro la puntata, ricostruiamo che Charlie detta Chuck è grande amica e collega della vittima Natalie, donna delle pulizie in un grande casinò di Las Vegas che, rassettando la camera di uno dei clienti regolari più Mazinga di tutti, scopre qualcosa di orrendo, lo denuncia al capo della sicurezza (Benjamin Bratt), che riporta la notizia all’ansioso figlio (Adrien Brody) del proprietario di casinò di cui sopra, il quale fa mettere a tacere la faccenda ordinando l’omicidio della donna e del marito fedifrago e violento.
A Chuck la storia puzza e ci mette dentro il naso, finendo per farsi ancora più nemici di quanti non ne avesse prima e costringendola a fuggire per tutta la nazione, mettendo Rian Johnson nelle condizioni di presentare un mistero diverso a ogni puntata, senza il rischio di cadere nel procedurale. Anzi. Poker Face, come i Knives Out, ha anche voglia di andare oltre il gioco enigmistico, raccontando personaggi se non profondi – molti, come quello di Adrien Brody, durano lo spazio di una puntata – sicuramente sfaccettati. Le capacità di Johnson di scrivere e mettere in scena un giallo appassionante, poi, continuano a essere impossibili da mettere in discussione, per quanto antipatici possano starvi i due Knives Out e il loro tentativo di fare il mistero che si risolve anche grazie alla morale. Qui di morale ce n’è meno, anche perché Chuck è una balorda geniale, savant e semi-alcolizzata che presumibilmente non vorrebbe essere da esempio per nessuno. Eppure è molto più decente delle persone che, attorno a lei, cercano di silenziarla a colpi di gaslighting. Chissà, forse la morale è proprio quella.
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