Esplorando il corpo umano della stand-up italiana, questa settimana ho scoperto alcune cose interessanti. Ho scoperto, ahimé, di non avere mai parlato di Luca Ravenna se non di sghembo. Ho scoperto una sua interessantissima intervista in cui, con il piglio chiaro e privo di un uso eccessivo degli avverbi proprio di uno che ha studiato sceneggiatura al Centro sperimentale di Roma, Ravenna spiega in maniera semplice la stand-up agli anziani. E, per ultimo, ho scoperto che Luca Ravenna lo seguo dal 2015, da quando aveva ventisette anni e faceva le webserie belle per Repubblica.it (Non c’è problema), in quel suo periodo professionale in cui insisteva nello sfruttare il diploma in scrittura di copioni e non si era ancora del tutto abbandonato al demone della stand-up – la malattia l’ha presa poco dopo, sembra, dall’amico e collega Edoardo Ferrario: non dico che ci sia di mezzo un rapporto intellettuale non protetto tra i due, ma visto che sono finiti praticamente sposati e con un figlio-podcast (Cachemire), ecco che, come soleva dire Lino Banfi «Oh madonna benedetta dell’incoroneta Una parola è troppa e due sono poche».
Da questa settimana in compagnia di Luca Ravenna ho ricavato alcune informazioni molto molto interessanti. Per prima cosa – ed è sempre una sorpresa, ma sono consapevole sia una mia responsabilità in quanto persona di poca fede – ho riscoperto un comico italiano che sa quello che fa. Aspetta però. Così sembra stia dicendo che non esistono altri comici italiani che sanno quello che fanno, e non è mica vero. Ravenna, però, ha l’aria di un comico che non solo sa quello che sta facendo, ma che oltretutto quello che fa lo supporta tramite riflessioni ponderate, approfondite, studiate e sviscerate. Non solo perché è la sua cifra personale e professionale – basta rivedere Non c’è problema per intuire, nel pantheon dei suoi riferimenti comici, la presenza di umoristi autoriflessivi come Woody Allen e Louis C. K. – ma anche perché è l’unico modo, forse, per innalzare la propria stand-up e separarla dalla tradizione del cabaret.
Dice Ravenna che quando un comico fa uno sketch di cabaret sul palco, in realtà nasconde un po’ la sua persona dietro al personaggio. Il cabaret si basa sulla condivisione di temi e situazioni che tutti viviamo, come può essere il traffico o il rapporto con la suocera, per esempio. Nella stand-up il rapporto tra persona e personaggio è un po’ diverso: «Con la stand-up il personaggio si nasconde dentro la persona, quindi non si parla del traffico in generale ma piuttosto del mio traffico specifico, che vivo ogni mattina nella mia città, che forse voi pubblico non conoscete e che adesso vi spiegherò. Penso che, a grandi linee, sia questa la differenza tra cabaret e stand-up. In entrambi i casi, l’importante è che il meccanismo comico funzioni. Spesso sento dire che la stand-up, rispetto al cabaret, deve far riflettere. Ma no, non è così. La stand-up deve far ridere. Poi, può anche far riflettere. Inoltre la natura stessa della stand-up, che prevede che il comico parli un po’ di più della sua esperienza e di se stesso, tende a essere più irriverente rispetto al cabaret. Con la stand-up è un po’ come se il comico parlasse ad alcuni amici, quindi è uno spettacolo tendenzialmente senza filtri e perciò più sfacciato». Dice: tutto bello in teoria, ma non è che Ravenna è bravo a predicare bene e poi chissà come razzola? Sbagliato. Date un’occhiata a questo speciale di stand-up semi-improvvisata che il comico milanese ha prodotto per Comedy Central Italia e che è una realizzazione plastica della sua riflessione.
E non è tutto. Nella citazione di cui sopra Ravenna parla delle differenze sistemiche tra il monologo comico che proviene dalla tradizione classica del varietà europeo e l’evoluzione stand-up venuta fuori dall’esperienza jazzistica americana – non esagero con il riferimento al jazz (che fa il paio con il riferimento, forse ancora più importante, con l’hip-hop), d’altronde sono forme d’arte che danno entrambe il meglio in locali rigorosamente: fumosi. Ma se si scende ancora più in profondità, nei meandri delle tecniche di scrittura e performance che separano queste due tradizioni, Ravenna ha altre cose interessanti da condividere.
Perché la stand-up, nella maggior parte dei casi, non la verghi nel vuoto cosmico della tua cameretta, in solitaria compagnia della tua fedele macchina da scrivere vintage. La stand-up la scrivi mettendoti pesantemente in gioco e confrontandoti continuamente con il pubblico. Certo, c’è chi si scrive tutto per filo e per segno recitandolo con fedeltà e sperando che tutto vada liscio. Ma mi sento di dire che sono in minoranza rispetto ai comici che vivono nel momento e sono in grado di assorbire l’energie della platea che hanno di fronte. «L’esperienza fa la differenza. E il pubblico, sotto questo punto di vista, ti dà un’enorme mano. È un mix di cose preparate e di improvvisazione. O almeno, per me è così. In parte i miei spettacoli sono improvvisazione pura, in parte invece dietro c’è qualcosa di scritto. L’importante è far percepire tutto quanto come qualcosa di davvero improvvisato. Una cosa però è certa: con la stand-up la quarta parete praticamente non c’è. Viene sfondata. E lo spettacolo viene fatto anche insieme al pubblico. Ogni spunto è buono per coinvolgere gli spettatori durante la stand-up, proprio perché la sua natura è quella di farla sembrare una serata tra amici, una cosa quasi intima». E nuovamente, perché non c’è cosa più divina di chi mette in pratica le proprie riflessioni, ecco la prova provata di quello che Ravenna teorizza. Anche in questa seconda parte di spettacolo il comico dimostra la potenza, nell’ambito della stand-up, dell’improvvisazione calcolata. Un misto di esperienza, preparazione, cervello svelto, carisma e capacità di reagire a ogni stimolo, per creare una forma di spettacolo che è allo stesso tempo intima e universale.
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