Una cosa è La casa di carta, prodotto che dai margini dell’impero dell’intrattenimento – solo da un punto di vista Hollywood-centrico: lo spagnolo è pur sempre la lingua più parlata al mondo – azzecca un sentimento, ottiene un inaspettato successo globale e per qualche tempo diventa fenomeno; ben altra cosa, invece, è una commedia come Dix pour cent, da noi Chiami il mio agente!, quella serie francese che con una singola, limpida idea magistralmente realizzata ha fatto pensare a tutti i produttori del mondo “anch’io anch’io, la voglio fare anch’io e poi voglio diventare ancora più ricchissimo ed estinguere il mutuo sulla quarta casa, la palafitta sul Po”.
Da lì è scattata la corsa al cosiddetto remake geolocalizzato – lo stesso effetto domino scatenato da Perfetti sconosciuti, a cui non a caso si ammicca anche nel remake italiano di Chiami il mio agente! – ovvero la gara ad accaparrarsi i diritti per un rifacimento indigeno della serie. Chiami il mio agente! era già stata rifatta in salsa quebecchese, indiana, turca, polacca, britannica e sudcoreana, e presto arriverà anche in Cina, Spagna, Germania, Indonesia, Medio Oriente, Filippine e Malesia; ma soprattutto è appena stata distribuita la versione italiana, confusionariamente re-titolata come Call My Agent - Italia. Ora, secondo me le domande sono due: perché il concetto di questa serie fa ridere, e dunque ha successo, in maniera così trasversalmente ecumenica attraversando ogni singola macro-regione culturale del pianeta? (Manca l’Africa, ma io dico che in un’industria dell’intrattenimento come quella nigeriana non tarderà ad arrivare). E perché è destino che il miglior rifacimento possibile di quel concetto lì sia per forza di cose quello italiano?
Chiami il mio agente! è una serie molto spassosa che racconta il dietro le quinte di una grande agenzia dello spettacolo. Non è una serie strettamente comica. Le risate sono asservite al contesto della narrazione e scaturiscono principalmente da due situazioni: quelle da sitcom, con personaggi perfettamente incasellati nella loro caratterizzazione sommaria che variano sul tema della routine delle loro buffe idiosincrasie e ti fanno dire “oh Tancredi, che sagoma che sei, solo tu potresti usare il coso dell’estintore in quella maniera lì”. In Chiami il mio agente! la suddivisione è schietta: c’è il socio dell’agenzia furbo e calcolatore che forse è il cattivo della situazione, la socia ambiziosa stacanovista ed esigente, il socio buono come il pane che ci tiene ed è sentimentale, la socia super veterana con saggezza e pelo sullo stomaco, l’assistente pettegolo che sa sempre tutto, la nuova assistente appena arrivata nella grande città, la carismatica receptionist che sa stare al mondo e non si fa mettere i piedi in testa. Loro fanno le loro cose e portano avanti la trama orizzontale della serie, quella che racconta le loro vite private, le loro evoluzioni come personaggi e via discorrendo. Una cornice narrativa che, peraltro, è davvero molto solida e permette tutte le parentesi di locura del caso.
L’altra fonte di risate, quella che ha titillato con sensuali schiaffoni a due a due la fantasia di ogni produttore che sogna Hollywood ma deve farsi andare bene il centro produzioni Rai di via Teulada, viene da tutte le celebrità che hanno accettato di apparire nei panni di se stesse, in una versione esagerata e/o buffa (ma mai grottesca) del proprio personaggio pubblico, sostanzialmente prendendosi in giro senza prendersi in giro, anzi: facendo la bella figura di chi sa scherzare con la propria celebrità senza prendersi sul serio, ma ovviamente in una situazione iper controllata. Un affare per tutti, a tutte le latitudini.
Le varie comunità formate dai membri del mondo dello spettacolo locale possono divertirsi a far finta che esista ancora uno star system davvero influente al di fuori di Hollywood – o di quei mercati giga-enormi (Cina, India) o extra focalizzati (Corea del Sud, Giappone) in cui il divismo esiste ancora; e noi spettatori possiamo sollazzarci a vedere gli attori e i cineasti nostri conterranei che gigioneggiano come dei bricconi divertendosi apertamente e senza vergogna. Di nuovo: vincono tutti. E questo atteggiamento sornione risalta tantissimo sul prodotto finale: si percepisce la gioia nel darsi queste ironiche auto-pacche sulle spalle, riuscendo a nutrire il demone della vanità e allo stesso tempo mettendolo alla berlina.
Call My Agent - Italia è una versione dell’originale in modalità tempesta perfetta. In Francia, il mondo dello spettacolo rappresenta un indotto serio e al cinema si strappano 150 milioni di biglietti, di cui quasi la metà per film nazionali: Chiami il mio agente! è una versione ironica ed esagerata di un qualcosa che esiste veramente. Da noi non è così. Da noi l’unico che rischia di essere davvero riconosciuto ovunque è Terence Hill. E solo se va in giro conciato in abito talare. E allora Call My Agent - Italia diventa un sogno umoristico, l’anello mancante che collega l’originale francese con Boris, la miglior interpretazione grottesca e nazional-popolare del mondo dello spettacolo che sia stata fornita in questo inizio di nuovo millennio.
E con coerenza quasi commovente, a unire Boris e Call My Agent - Italia è Lino Banfi (con la preziosa collaborazione di Paolo Sorrentino). In Boris, nonno Libero era il vero punto di riferimento di Nando Martellone, comico scureggione che voleva passare alla recitazione seria e intenza con la zeta; in Call My Agent - Italia, invece, Banfi è la proposta di Sorrentino per un personaggio della sua prossima serie, Lady Pope con protagonista Ivana Spagna. Si scopre abbastanza in fretta che è un pesce d’aprile escogitato dall’annoiato regista per prendere per i fondelli i soci, spaesati per aver da poco ricevuto la notizia che il fondatore dell’agenzia ha deciso di andare in pensione e svernare a Bali. È tutto magnifico ed è un cerchio della vita del mondo dello spettacolo che si chiude alla perfezione, avendo finalmente normalizzato l’ingresso di Boris nel canone ufficiale.
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