Non vellica il godimento degli adepti di Too Old to Die Young, molto lontana dagli standard di creatività, scrittura e messa in scena, della serie per Prime Video. Non è nemmeno una vera mythology series di Nicolas Winding Refn, che ispira, detta, dirige anche, ma guarda con un certo distacco (come compare, in cameo, di fianco ai creativi fallo-dipendenti). Per Netflix è un buco nero produttivo. Ciononostante, rimane una delle poche ragioni per stare quasi otto ore davanti allo schermo, in una stagione di grande impasse narrativo, con nessun (altro) racconto veramente in grado di tenere l’orizzontalità di una stagione: qui non si attendono gli avvenimenti, ma gli eventi.
Mette in crisi il patto dello spettatore con l’offerta da streaming player: quello che si deve aspettare e quello che si deve chiedere, però segna una differenza totale da tutto il resto. La traiettoria della protagonista Miu (“moneta fortunata”, strega, fata, gangster) passa orizzontale attraverso i quadri (mafia albanese, cinese, danese, balcanica), senza senso per uno spettatore che non conosce il passato e decodifica a fatica il presente. Incontra vecchie megere, primogeniti perversi, avvocati criminali, spacciatori metropolitani, tenutarie di bordelli, prostitute, sante, peccatori. Dispensa maledizioni e benedizioni: non è un personaggio, ma un attributo narrativo.
Miu è il coefficiente mancante di tutti gli altri plot narrativi, quello che potrebbe servire a raggiungere una fine (o almeno a produrre un avanzamento) e invece viene sempre usato come surplus iperbolico per andare da un’altra parte. È una linea continua, scritta da Sara Isabella Jönsson, che contrappunta con altre due strutture dinamiche: la panoramica a 360° di NWR e l’iterazione ritmica di Cliff Martinez alla colonna sonora. E tutto intorno neon. Si guarda, ipnotizzati, per conoscere tutte le possibili combinazioni di questi quattro movimenti artistici (linea, cerchio, punto, sciame), si aspetta ogni nuovo quadro (scena), che dal precedente non deriva, ma fluisce.
La scrittura è eccessiva, compiaciuta, a tratti insopportabile, spesso stupefacente, mai straordinaria, pura materia ancillare per la messa in scena: dopo il David Lynch di Twin Peaks: Il ritorno, questo Nicolas Winding Refn è ormai un Ronaldo arabeggiante della produzione esecutiva. La fiction seriale muove verso il mercato dell’arte contemporanea, terreno e territorio da Damien Hirst e Maurizio Cattelan, ai confini con il puro gesto. E infatti alcune cose (non scene, non storie) sono degne di uno dei più grandi artisti contemporanei. Refn ragiona sempre sulle stesse cose: il superamento del capitalismo attraverso la disintermediazione della prostituzione, l’incesto come unica via possibile alla castrazione e la composizione cromatica all’identità. E due delle cose per cui vale la pena vivere: il design (nordico) degli anni 70 e la musica elettronica degli anni 80. Si consiglia vivamente di vedere solo i primi cinque episodi, per mantenere l’erezione intellettuale.
La serie tv
Copenhagen Cowboy
Noir - Danimarca 2022 - durata 53’
Titolo originale: Copenhagen Cowboy
Creato da: Nicolas Winding Refn
Con Angela Bundalovic, Ramadan Huseini, Fleur Frilund, Nicolas Winding Refn, Zlatko Buric, Mikael Bertelsen
in streaming: su Netflix Netflix basic with Ads
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