Una tragedia locale, che rimanda a una collettiva, nazionale. Nulla avviene per caso, sembra dire Bong Joon-ho, mentre lavora sulla sensazione invisibile, ma intensamente presente, che qualcosa di brutto stia accadendo, dentro e fuori campo. Davanti a noi abbiamo il giallo, il whodunit, una coppia di poliziotti inetti quanto in malafede, del tutto inadeguati a fronteggiare la minaccia in corso. Finché un agente di città, Seo Tae-yoon, arriva da Seul, con una allure e una spocchia degne del primissimo Dale Cooper a Twin Peaks. E il giallo presto vira verso l’incertezza del noir e di delitti insoluti, di rara brutalità.
Un sasso gettato nella delizia bucolica della provincia coreana di Gyeonggi, nel lontano 1986. Ma lo insegnava già David Lynch – proprio nel 1986 – che sotto i prati più innocenti si può nascondere un orecchio umano, cosparso di formiche. Bong ha recepito, preso appunti e messo in pratica, a modo suo. Ma la parentela tra Memorie di un assassino (che perde la “i” di assassinio per l’antico vizio, tutto italiano, di insinuarsi persino nelle traduzioni più piane e letterali) e Velluto blu termina qui.
In Bong è sempre presente, e in primo piano, l’accezione politica. Più che mai in Memorie di un assassino, ritratto di una nazione ridotta allo stadio terminale, che necessita di una cura radicale. Torniamo al fuoricampo, quindi. Mentre i delitti di un serial killer insanguinano la campagna, quelli commessi dalla polizia insanguinano le strade delle città, dove studenti in marcia chiedono libere elezioni e la fine di un regime che da troppi anni insozza la società civile sudcoreana, come una trasfigurazione in nero di quanto avviene, in rosso, dall’altro lato del 38° parallelo. Il popolo vincerà, ma più che altro grazie alla necessità degli Stati Uniti di salvare le apparenze, in vista dei giochi olimpici di Seul del 1988 (quelli del doping di Ben Johnson e del non-doping di Florence Griffith Joyner, per intenderci). Ma in quel 1986 la democrazia sembrava ancora lontana.
A Bong non serve mostrare strade, né manifestazioni, né pestaggi. A quello ci penserà, molti anni dopo, la tronfia retorica di 1987: When the Day Comes (2017). Nel 2003 ci voleva coraggio per affrontare un passato ancora troppo prossimo: solo da poco Lee Changdong aveva spianato la via alla seduta psicanalitica di una nazione, con lo straordinario Peppermint Candy (1999).
Lo stile di Bong, benché solo al secondo lungometraggio – dopo la black comedy Barking Dogs Never Bite – è già maturo. La rivolta resta nelle ellissi, e necessita solo di qualche riferimento, fuggevole, alle pratiche della polizia, o alle gite “in trasferta” che toccano ai due sbirri, costretti a un lavoro straordinario, a colpi di taekwondo, contro i moti studenteschi che infiammano la nazione.
«Ah, come sarebbe semplice se il serial killer fosse comunista!», sembra quasi voler dire, a un certo punto, il detective Park Doo-man, maschera a cui dà vita Song Kangho, straordinario attore specializzato in ruoli di mediocri e meschini membri del popolo degli ignavi. Mussolini aveva il suo Girolimoni da accusare ed esporre al ludibrio pubblico, ma ai suoi corrispettivi coreani non andò altrettanto bene. L’assassino rimane legione: uno, nessuno e centomila, inafferrabile perché invisibile come un virus, come un’incarnazione della violenza e degli abusi di un paese malato, in ogni suo anfratto.
Il film
Memorie di un assassino
Thriller - Corea del Sud 2003 - durata 129’
Titolo originale: Salinui chueok
Regia: Joon-ho Bong
Con Kang-ho Song, Kim Sang-kyung, Kim Roeha, Song Jae-ho
Al cinema: Uscita in Italia il 13/02/2020
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