Nel frammentario mondo dell’animazione contemporanea, è difficile tracciare una storiografia al passo con le novità, tendenze e soprese, nella continua evoluzione del genere. Farsi strada tra lungometraggi, cortometraggi, videoclip, installazioni, mostre e scenografie, può essere un’impresa davvero ardua, quando attorno ai mostri sacri del genere si dedicano svariati articoli e approfondimenti, mentre una serie di nomi rimangono come confinati nel settore: lavori accessibili per spettatori di festival, addetti ai lavori e fortunati esploratori nell’etere delle animazioni sul web. La fortuna di molti di loro dipende da determinate commissioni, o almeno, così è stato per The House prodotto da Neflix, film a episodi di Emma de Swaef, Marc James Roels, Niki Lindroth von Bahr, Paloma Baeza e scritto da Enda Walsh, nomi ancora sconosciuti al pubblico mainstream ma considerati dei geni dell’animazione contemporanea.
Operazione che è valsa a questi professionisti una certa notorietà che prima era (forse) troppo imprigionata nelle dinamiche festivaliere. Il secondo dei tre episodi del film è diretto da Niki Lindroth von Bahr, straordinaria artista e regista svedese il cui lavoro nel mondo della stop-motion è stato tra i più osservati e apprezzati negli ultimi dieci anni. I suoi pluripremiati film Tord and Tord (2010), Bath House (2014), The Burden (2017) e Something To Remember (2019) sono tutti creati attraverso animazioni passo uno con pupazzetti in miniatura altamente dettagliati, dove ogni piccolo oggetto assume un’anima, una vita e una specificità d’essere: gli animali si vestono così come gli umani e abitano ambienti curatissimi nei particolari e ogni dettaglio emana la tristezza della vita quotidiana.
Il suo è uno dei nomi più amati e conosciuti del circuito festivaliero del cinema breve, che, per usare le parole di Lav Diaz, lungo o corto che sia, si tratta sempre di cinema. E quello di Niki Lindroth von Bahr è un cinema incredibile, che circumnaviga i generi e parte dall’animazione per creare qualcosa di inedito, emozionale, spiazzante, caustico e dolcissimo allo stesso tempo.
Min börda, The Burden, il fardello, è probabilmente il suo capolavoro. Un viaggio-musical indimenticabile all’interno di nonluoghi svuotati, dove ci si imbatte nelle sconsolate domande di un gruppo di lavoratori antropomorfi alle prese con la mancanza di clienti. Gli animali protagonisti abitano dei microcosmi, piccoli grandi plastici di mondi immaginati in modo incredibilmente realistico, progettati e creati con affinità demiurgica.
Il suo è il lavoro di burattinaia, dove le miniature in movimento dialogano, cantano, riflettono e si inquietano come gli esseri umani. Perché se c’è una cosa che caratterizza il cinema di questa regista, è il suo essere lanciato nelle più alte vette dell’animo umano e nelle sfaccettature di irrequietezza e oscurità, così che pesci, scimmie, topi, possono proiettarsi nell’infinitezza della sopravvivenza esistenziale, in continua ricerca di un posto sul loro pianeta.
Con gli stupefacenti luoghi creati in piccola scala dei corridoi dei supermercati, degli uffici e delle reception, la regista getta luce su aspetti banali, ma trascurati e affascinanti della nostra vita quotidiana, senza svelare il mistero esistenziale che rimane racchiuso nel diorama messo in scena.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta