Oltre alla sicurezza nel mondo del lavoro, il tema sul quale si sono concentrate gran parte delle critiche all’assegnazione dei controversi mondiali in Qatar da parte del Comitato Esecutivo della Fifa riguarda i diritti civili, bellamente calpestati da parte dell’Emirato, in particolare quelli riguardanti la comunità lgbtq+. Abbiamo visto in questi giorni affossati i vari tentativi di evidenziare il problema, con il caso più eclatante del portiere tedesco Manuel Neuer, al quale è stato proibito di indossare la fascia arcobaleno di capitano della sua Nazionale (ricordate la foto prima della partita con i tedeschi a chiudersi la bocca e mai inquadrati dalla tv qatariota?); ma in ogni caso gli arcobaleni sono stati faticosamente oscurati, con l’ultimo inquietante caso di un noto giornalista sportivo americano, morto per infarto in tribuna stampa durante Argentina-Olanda, con sospetti anche da parte della famiglia dell’inviato, visto che indossava abitualmente un maglietta arcobaleno.
Il discorso dei diritti civili ignorati in Qatar fa tornare il dibattito su come il mondo dello sport, al di fuori dei confini del mondiale di calcio che si avvia alla conclusione, non brilli, nemmeno nei Paesi più “liberi”, per accettazione della diversità o quantomeno suggerisca agli atleti omosessuali di restare ancora nell’ombra. Ne è convinto, ad esempio, un ex giocatore della Germania, Philipp Lahm, che invitava tempo fa i colleghi gay a non dichiararsi, in quanto l’ambiente sportivo, e in generale quello sociale, non sarebbe ancora pronto. E stiamo parlando della Germania e non del Qatar.
Può darsi che Lahm abbia esagerato con la cautela (in realtà la solidarietà si sta ampliando e molti atleti si stanno dichiarando con convinzione), ma è certo che il mondo dello sport non dimostra da sempre particolare sensibilità verso questo tema; e il calcio è di sicuro tra i meno aperti ed è un discorso che vale maggiormente per gli sport di squadra, dove il “cameratismo” provoca psicologicamente un ulteriore blocco nell’esprimere la propria sessualità.
Certo la spinta dovrebbe avvenire dagli sportivi di maggior prestigio e più celebri. In passato ci sono stati casi importanti, anche se alcuni solo a fine carriera, dalla tennista ceka Martina Navratilova (che sui giornali spesso veniva descritta come l’unica tennista che gioca come un maschio, per capire l’andazzo) al nuotatore australiano Ian Thorpe, cha faticò non poco a fare coming out dopo mille smentite, e soprattutto al tuffatore statunitense Greg Louganis, che già nel 1994 trovò il coraggio di esporsi, mentre all’epoca i giornalisti maschi si dimostravano ancora imbarazzati nel doverne descrivere la bellezza, titubanza che non accadeva con le atlete donne.
Da allora qualcosa è indubbiamente cambiato anche negli ambienti sportivi e l’omosessualità trova ora una timida cittadinanza, anche se continua a essere un po’ ovunque un tabù pesante.
Molte atlete stanno uscendo allo scoperto, un po’ meno gli uomini, probabilmente perché più esposti: si pensi al caso, non isolato, della pallavolista italiana Paola Egonu, che ultimamente è scoppiata in lacrime anche per subdole manifestazioni razziste per il colore della pelle, ma ancora prima della più celebre calciatrice azzurra, oggi allenatrice (Carolina Morace), mentre tra i maschi amaro e doloroso è il ricordo del calciatore britannico Justin Fashanu, primo calciatore di fama internazionale a dichiararsi gay, e poi suicida, dopo accuse di molestie nei suoi confronti, lasciando un biglietto in cui si dichiarava per l’ennesima volta estraneo all’ipotetico stupro denunciato da un giovane.
Purtroppo la strada resta ancora lunga e molti sportivi hanno sempre timore a dichiararsi, perché la distanza tra Qatar (e Paesi simili) rispetto all’Occidente resta evidente per i rischi fisici che si corrono (in alcuni Stati è ancora possibile la condanna a morte, crudeltà assoluta), ma sul piano psicologico la differenza non sembra essere così rilevante.
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