Sarà che manca quel settimanale appuntamento con Carmen Sandiego, ma vi svegliate mai la mattina chiedendovi: che fine ha fatto Eli Roth? Nel senso, sta bene? È sopravvissuto alla pandemia? No, perché gli ultimi film che ha realizzato risalgono al 2018 e peraltro erano un remake di Il giustiziere della notte con Bruce Willis al posto di Charles Bronson e la commedia fantasy Il mistero della casa del tempo. Che ti già di viene da chiederti, ma come: sei il maestro dell’horror e mi vai a fare un poliziesco e un fantasy? Stai bene? Ti senti la febbre?
In realtà Eli Roth sta molto bene, dirige documentari sugli squali e sta finendo la post-produzione di Borderlands, western fantascientifico sparatutto ispirato all’omonima serie di videogiochi. Nel frattempo che ricomincia con calma a fare cinema, però, la passione dell’horror continua a curarla facendo il padrino di antologie televisive. Roth è diventato sostanzialmente un Hitchcock bulimico, che produce e presenta trasmissioni con titoli che sanno di suola di scarpa come Eli Roth Presents: My Possessed Pets, Eli Roth Presents: A Ghost Ruined My Life e The Haunted Museum. Ma a noi piace così, Eli Roth. Cafone e con i bicipiti gonfi. Anche quando finisce a supervisionare serie horror antologiche per Travel Channel, che è un canale che si spiega da solo e che fortunatamente ha un accordo di distribuzione con Discovery +, rendendo possibile la distribuzione di Urban Legend anche fuori dagli Stati Uniti.
A noi Eli Roth ci piace così, si diceva, perché va bene la versione dell’antologia horror che tiene il sopracciglio alzato mentre guarda i colleghi sporchi e puzzolenti – stiamo parlando della bella cassapanca degli orrori curata per Netflix da Guillermo del Toro – ma noi mica ci lamentiamo se ogni tanto ci ammanniscono dell’horror primigenio, di quelli che non riflettono troppo sulla semiotica o sulle allegorie e invece spingono forte il tacco nella panza dello spettatore. Oltretutto durando trentaquattro minuti a puntata invece che un’ora.
Il primo dei sei episodi, in ordine di programmazione, di Urban Legend non parla di una leggenda metropolitana, come suggerirebbe il titolo della serie. Che poi in effetti, se ci pensi, qualsiasi storia potrebbe passare per leggenda metropolitana da qualche parte. Io non le so mica le leggende metropolitane di Chattanooga, Tennessee per esempio. Quindi meglio non pensare al titolo. Pensiamo all’episodio pilota, piuttosto, che è una simpatica digievoluzione di Hostel. Oggi i ricchi decadenti che vogliono nutrire le proprie malsane parafilie sadiche non devono più andare a Praga, basta si colleghino in streaming pagando in bitcoin.
Un seminterrato umido, scuro e inquietante acchitato come fosse la sala delle torture di un inquisitore domenicano qualsiasi. Un uomo in mutande e imbavagliato, legato e ammanettato a un trono di legno da una carceriera vestita di lattice che si fa chiamare Maestà e si nasconde dietro una maschera inquietante. L’aguzzina trasmette in streaming le sevizie a favore di un ristretto gruppo di amici malati, come li chiama lei affettuosamente, fornendo loro tre opzioni per la tortura del prigioniero. In realtà vittima e carnefici sono in combutta per spillare soldi agli psicopatici ed era tutta una valida, seppur sanguinolenta messa in scena. I toni passano, con uno stacco di montaggio, dal torture porn al brainstorming per decidere quali novità svitate e realistiche apportare allo show per aumentare le visualizzazioni. Poi la storia cambia un’altra volta paradigma ed è talmente semplice e serrata da chiudere il cerchio e riuscire a ricavare anche una postilla.
Urban Legend sembra una di quelle antologie di qualità medio alta, onestissima forma d’intrattenimento messa insieme da ultra professionisti che vanno dritti alla meta. Laddove, in questo caso, la meta è sollazzarti con alcuni spaventini ben girati e svariate intuizioni macabre. C’è da dire, però, che siamo lontani dal torture porn con cui Eli Roth si trastullava quando l’horror lo dirigeva, invece che produrlo. Non per tutti è un male, ma sempre meglio avvisare.
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