È tutto vero: non producono più niente di originale, è tutta una rincorsa a proprietà intellettuali che garantiscono sicuro successo a fronte del minimo sforzo creativo e signora mia è tutto un remake, un revival, un paio di sequel, alcuni prequel, reboot a sorpresa. Ne ha parlato con dovizia di particolari e snocciolamento di numeri l’amico Nanni Cobretti qui, nella sua recensione di Cut! Zombi contro zombi. Ed è la verità, è così e i numeri non mentono. Però ogni tanto, a guardare attentamente, fra le montagne di déjà vu e ripetizioni di cui è fatto l’intrattenimento da dieci anni a questa parte si trovano anche dei gioiellini nascosti.
Come questa Pitch Perfect: Bumper in Berlin, per esempio, prodotta e trasmessa da Peacock e quindi con chance di distribuzione su Sky; che come suggerisce il titolo è una miniserie sequel (creata da Megan Amram ed Elizabeth Banks) della più o meno omonima trilogia di commedie con molta musica in cui Anna Kendrick scopre il magico e anche un po’ demenziale mondo delle gare universitarie di canto a cappella. Uno dei deuteragonisti secondari più memorabilmente scemi della saga era Bumper, l’archetipo del personaggio che ha raggiunto il suo apice – di popolarità, di successo, di sicurezza in se stesso, di potenza – quando aveva 20 anni, per poi non riprendersi più dalla secchiata gelida di realtà che la vita gli ha scagliato in faccia, rifiutandosi di accettarla: Bumper non è una rockstar, i gruppi di canto a cappella non riempiono gli stadi (e nemmeno le case di riposo) e tutti gli amici che cantavano insieme a lui ai tempi del college sono cresciuti coerentemente con la loro età e adesso sono uomini vicini agli anta che cantano solo per hobby, non per ambizione o per dimostrare qualcosa.
Un personaggio del genere è complicato da far risultare simpatico, specialmente dal momento che nel primo film era il villain della situazione, malvagio manipolatore vittima della sua stessa arroganza, e in quelli successivi aveva giusto lo spazio che si concede alla spalla comica, a quello che subisce le umiliazioni. Per rendere meritevole di empatia un personaggio del genere – un tizio grottesco, stupido, egocentrico e distaccato dalla realtà che però ci prova mettendoci tutto il cuore in suo possesso – ci voleva la rara combinazione di un comico bravo con una voce angelica e Adam DeVine è perfetto.
Dopo che un suo medley fra 99 Luftballons e Take On Me diventa un successo virale sul TikTok tedesco – a pari merito con il video in cui scivola sul ghiaccio mostrando involontariamente le pudenda – l’ex collega Pieter (l’assurdo comico tedesco Flula Borg) lo convoca a Berlino per dargli una nuova occasione come cantante. In realtà anche Pieter – che era il cattivo in overacting del secondo film – è un cialtrone mezzo in rovina che però sogna in grande, e non il potente manager che diceva di essere al telefono. Entrambi sono alla loro ultima possibilità e devono collaborare per sperare di farcela e raggiungere l’agognato successo. Anche perché Bumper è senza passaporto: l’ha buttato pensando che fosse una cosa usa e getta.
C’è qualcosa di buono e ineffabile in questa miniserie. Qualcosa di giusto costruito sulle piccole cose. A partire dai titoli delle puntate, che giocano con le parole più complesse del vocabolario tedesco. Il pilota, ad esempio, si intitola “Backpfeifengesicht” ovvero: una faccia che si merita di essere schiaffeggiata. Poi, fra le faccende ineffabili, metteteci anche la presenza di un cast totalmente insensato. Anche se non appare nella prima puntata, c’è Udo Kier nei panni del malvagio padre del personaggio di Flula Borg; mentre nel ruolo della matrona dell’ostello cui vive Bumper c’è Katharina Thalbach, fra i più grandi attori del teatro tedesco contemporaneo, pluri-premiata regista di prosa e di opera e fra le protagoniste di Il tamburo di latta, quel film di Volker Schlöndorff che vinse la Palma d’oro del 1979 ex-æquo con Apocalypse Now. Mica ciufoli.
La formula di Pitch Perfect: Bumper in Berlin è sempre quella azzeccata dai film, ma sempre più affinata: usare la classica parabola hollywoodiana del film sportivo, ma traslata nel mondo del canto a cappella competitivo, che agli occhi dei protagonisti è più importante dei mondiali di calcio. Quello che fa funzionare l’idea è che i film (e in misura ancora maggiore la serie) sono consapevoli della sciocchezza iperbolica e vagamente nonsense della premessa, evitando di prendersi troppo sul serio.
Merito di Elizabeth Banks, coinvolta nella saga a vario titolo (produttrice, interprete, regista, sceneggiatrice) e generalmente in possesso di un gran senso dell’umorismo. Quanto grande? Abbastanza da farle venire voglia di dirigere un film che racconta la storia vera di un orso impazzito dopo aver ingerito svariati chili di cocaina. E non è un caso: senza la saga di Pitch Perfect non ci sarebbero state nemmeno le recenti variazioni sul genere più puramente comiche, come Vite da popstar e Eurovision Song Contest: La storia dei Fire Saga, una delle ultime mattate di Will Ferrell.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta