Quel nocciolo di un’albicocca addentata alla guida, lanciato dal finestrino dell’auto contro un carro armato, che fa istantaneamente esplodere il mezzo cingolato dell’oppressione come fosse una molotov, è una delle metafore più forti nel catalogo del nonsense militante messo in atto dai film di Elia Suleiman (accade in Intervento divino). “È un’immagine che mi è saltata subito in mente un giorno a Nazareth, mentre superavo in macchina proprio un carro armato appostato”, ci ha raccontato il regista nei giorni in cui la città di Avellino lo ha ospitato per consegnargli il premio alla carriera del 46esimo Laceno d’Oro. “Accostai per appuntarmi l’idea. Solo che realizzarla ci è costato tantissimo sforzo e tempo, molto di più che averla solo sognata. Abbiamo dovuto portare un vero carro armato sul set, e l’abbiamo fatto saltare in aria per davvero!”.
Ecco, nei film di Elia Suleiman assisti sempre a questo gesto spesso disperato di rifondazione del senso stesso di un set, di una singola sequenza, di un sentimento o di un legame affidati allo schermo. La volontà ostinata di liberare le immagini dai congegni in cui la macchina (istituzionale? industriale?) le ha imbrigliate sin dalle origini. Una scintilla che risuona a Parigi o New York come, con un’eco ancora maggiore, nella sua Palestina. Un sabotaggio rivoluzionario, come quello che ha attuato sulle nostre domande in questa nostra chiacchierata con lui.
Il grande jazzista Roscoe Mitchell una volta ha detto che bisogna avere un motivo veramente importante per interrompere un silenzio. È un’affermazione che fa pensare subito al tuo cinema. Senti che abbia qualcosa in comune con i tuoi film?
La frase di Roscoe Mitchell chiaramente ha a che fare con il mio cinema. Ha a che fare soprattutto con la necessità e urgenza che devo sentire per girare un film. Non faccio film se non avverto una necessità. Spesso mi viene chiesto, un po’ superficialmente, come mai passi così tanto tempo tra un film e un altro e come mai abbia fatto così pochi film nella mia carriera. Innanzitutto io non sono un cinefilo. Non sono nato e cresciuto in una famiglia in cui si guardavano così tanti film, non ho il feticcio della camera e delle immagini cinematografiche. Ovviamente amo il cinema, ma non è la mia unica passione.
Inoltre, per fare film, ho bisogno di uno stato d’animo particolare, ho bisogno di vagare. Sia mentalmente che fisicamente. Ho bisogno di pormi domande su di me, sulle persone che incontro, sulla situazione politica e il mondo che ci circonda. Ho bisogno di stare nel mondo e di essere sollecitato dalle cose che vedo e che sento. Per questo processo di osservazione, di ascolto e riflessione, è chiaro che non basta né un mese né un anno. È una cosa molto lunga. E in tutto questo tempo prendo tanti appunti. Annoto ciò che colpisce la mia attenzione, sia cose più ironiche, sia cose più melanconiche. Divido il mio tempo tra momenti di riflessioni esistenziale, domande, questioni interiori e momenti vissuti negli spazi pubblici, al tavolino di un bar, guardando i passanti.
Chiaramente, una grande parte di questo processo creativo è fatto di silenzio e di monologhi interiori. Spesso mi viene chiesto perché i miei film siano così poco parlati. Secondo me questo significa non cogliere il punto. Perché esistono tanti linguaggi. Esiste il linguaggio del suono, il linguaggio del corpo – i miei film sono pieni di coreografie –, c’è il linguaggio della musica, c’è il linguaggio della parola e c’è quello del silenzio. Perciò, il fatto che nei miei film ci sia un silenzio verbale non vuol dire che ci sia un silenzio in assoluto. Ognuno di questi linguaggi si muove verso significati diversi ed è aperto a interpretazioni differenti da parte dello spettatore. Mi interessa che nel silenzio lo spettatore possa intendere quel che vuole, possa riempire i punti, i vuoti che quel silenzio apre. E questo crea un dialogo potenziale tra lo spettatore e il film.
Se il film ti dice tutto, esiste poco spazio perché lo spettatore possa chiedersi altre cose. Trovo che in tanto cinema di oggi ci sia un abuso di linguaggio verbale. I film vengono riempiti di parole banali, che non hanno sfumature. E questo è comprensibile in un’ottica consumistica del cinema, dove conta più di tutto vendere biglietti. Perciò ci sono tantissimi film che si assomigliano, lineari, in cui magari cambiano i nomi dei personaggi, ma in fondo le storie sono sempre le stesse. In tutta questa abbondanza di parole, è chiaro che non c’è spazio per il silenzio. E quando manca il silenzio, manca anche un potenziale dialogo tra lo spettatore e il film. Il silenzio è prezioso, perché apre a tante questioni. Nel silenzio ci si chiede chi siamo noi, chi siamo noi rispetto al mondo, qual è la società in cui stiamo vivendo. Il silenzio fa anche un po’ paura, ovviamente, perché ci mette davanti alla morte, davanti al fatto che siamo esseri fragili, effimeri e che scompariremo.
Anche riflettendo su quello che dici, è evidente che nel tuo cinema, al di là del silenzio, sono fondamentali proprio i vuoti. Nei tuoi film ci sono ellissi narrative incredibili. Come i salti temporali de Il tempo che ci rimane. O certi momenti di Il paradiso probabilmente. C’è una scena in cui il tuo personaggio è a Parigi, guarda il cielo, vede passare tre aerei e in uno stacco di montaggio, l’attimo dopo, è a New York. Ha preso l’aereo semplicemente guardandolo. In questo senso, il tuo cinema tende all’essenziale, non va mai oltre il necessario. Anzi sembra diventare, film dopo film, sempre più essenziale.
Di solito i primi dettagli che mi spingono a scrivere un film potrebbero sembrare marginali. Sono dei movimenti, gesti del corpo, espressioni, sguardi di persone che ho osservato e che mi colpiscono per qualche motivo, che scatenano in me emozioni e riflessioni. E in questi piccoli gesti c’è sempre uno humour potenziale. Di solito questi attimi che colgo per strada, non li fotografo con il cellulare, non ho questo gesto immediato. Ma li segno, prendo nota. Sono ancora molto legato al taccuino e alla penna. Ed è interessante, perché il taccuino e la penna non hanno l’immediatezza che può avere il cellulare. Il breve tempo che intercorre tra l’attimo in cui vedo qualcosa e quello in cui lo annoto sul taccuino, è un momento fertile.
La seconda fase del processo creativo mi vede seduto alla scrivania, davanti a una serie di post-it attaccati al muro, su cui ci sono proprio queste annotazioni. Mi siedo e li osservo a lungo. Nella mia testa viene a comporsi una specie di montaggio subliminale, qualcosa che non ha ancora una linea narrativa, ma una serie interconnessioni tra questi vari momenti che ho annotato e che in modo un po’ sfuggente, un po’ poetico, mi dicono qualcosa. È come trovarsi davanti a un quadro che deve essere riempito. Anzi, è come se davanti a me ci fossero cento, duecento quadri composti da tutti questi dettagli. E qui inizia la parte interessante. Qualcosa sfugge al mio controllo, alla mia autorità, al mio potere, come se prendesse vita da solo.
Guardando questi quadri intorno a me, è come se entrassi in uno stato di leggerezza, in cui mi sento quasi fluttuare e mi sento parte di questi quadri. È una fase interessantissima, perché è la fase del rischio. Sento quasi di volare e non so se mi schianterò, se volerò più alto, dove andrò. Però è una fase che mi dà anche grande piacere. Non ho ancora in mente la direzione precisa, ma dentro di me ho la fiducia che tutti questi pezzi del puzzle si sistemeranno. Poi segue la fase un po’ più complessa per me, quella in cui rimango bloccato. Perché, al di là delle regole che ci insegnano, mi sembra sempre artificioso dover trovare una struttura, una linea narrativa che metta insieme tutti gli episodi che mi passano per testa. Poi spesso qualcosa succede, cose accidentali e il flusso riprende un ordine.
Come si fa a vivere in un Paese che ha una forte esposizione mediatica riuscire a trovare sempre il respiro? Il silenzio è respiro. Prima si parlava di jazz. Ma anche la poesia è così. Nella poesia il silenzio è fondamentale. La cosa straordinaria del tuo cinema è quello di non essere affermativo, di non essere mai catalogabile politicamente, né a sinistra né a destra. Di non voler mai dare una lezione di storia.
È vero che c’è un sensazionalismo mediatico su Israele e Palestina, ma forse è proprio questo che mi ha spinto a raccontare storie più marginali, nascoste, non così evidenti e facili. Non ero un ragazzo cinefilo, come dicevo prima. Ho mollato la scuola molto presto e non avevo una grandissima cultura. Né cinematografica né letteraria. Ma sin da giovane mi ero accorto che c’erano tantissimi film pedagogici, o di registi stranieri che venivano a girare in Palestina o di registi “di sinistra” israeliani. Film ecumenici, conciliatori, che molto spesso raccontavano una relazione tra una persona palestinese e un’altra israeliana.
Non potrò mai dimenticare una proiezione a Nazareth. Uri Barbash era venuto a presentare uno dei suoi film. Io ero in sala, tra la folla, ero molto giovane. Alla fine della proiezione, lui si accorse che il film non mi era piaciuto. Proprio per questi motivi. E davanti a tutti, mi disse “bè, io la mia parte l’ho fatta, adesso tocca a te”. È una vita che sogno di incontrarlo per dirgli “anch’io ho fatto la mia parte!”. Insomma covavo un senso di rivalsa e di vendetta. Solo che non avevo le parole, non avevo il linguaggio per esprimermi e argomentare. Mio fratello, invece, insegnava all’università e perciò un giorno gli chiesi di procurarmi in biblioteca libri di registi che raccontavano il loro cinema. Registi di cui non avevo visto niente prima... Ho iniziato a leggere tantissimi di questi libri e ho acquisito un linguaggio critico. Poi quando mi sono trasferito da Nazareth a New York, passavo gran parte del mio tempo a veder film. Compravo i noodles e andavo a vedere film. E, alla fine, ho iniziato a fare questo lavoro.
Ma il mio interesse è sempre stato rivolto a storie che non fossero così evidentemente al centro della scena, che riguardassero, invece, vicende più ai margini, più defilate. Ho anche girato un film come Introduction to the End of an Argument, che parla appunto della rappresentazione mediatica del conflitto israelo-palestinese. E proprio quel film mi ha aiutato a capire la possibilità e il modo di raccontare in maniera diversa rispetto alla narrazione dominante.
IL LACENO D’ORO
Il Laceno d’oro International Film Festival di Avellino è organizzato dal Circolo ImmaginAzione, presieduto da Antonio Spagnuolo, con la direzione artistica di Maria Vittoria Pellecchia in collaborazione con Aldo Spiniello, Sergio Sozzo e Leonardo Lardieri, e con il contributo di Regione Campania, Film Commission Regione Campania e Direzione Generale Cinema e Audiovisivo del MIC
I film di Elia Suleiman
La Guerra del Golfo... e dopo
Documentario - Libano/Tunisia 1991 - durata 55’
Titolo originale: Harb Al-Halig... Wa ba'da
Regia: Borhane Alaouié, Nouri Bouzid, Nejia Ben
Cronaca di una sparizione
Drammatico - Palestina 1996 - durata 84’
Titolo originale: Chronicle of a Disappearance
Regia: Elia Suleiman
Con Elia Suleiman, Nazira Suleiman, Jamel Daher, Fawaz Eilemi, Fuad Suleiman
Guerra e pace a Vesoul
Documentario - Israele/Francia 1997 - durata 75’
Titolo originale: War and Peace in Vesoul
Regia: Amos Gitai, Elia Suleiman
Con Amos Gitai, Elia Suleiman, Jean Marc
Intervento divino
Grottesco - Palestina 2001 - durata 92’
Titolo originale: Yadon ilaheyya
Regia: Elia Suleiman
Con Elia Suleiman, Amer Daher, Jamel Daher, Naeif Daher, George Ibrahim
Al cinema: Uscita in Italia il 08/11/2002
A ciascuno il suo cinema
Sperimentale - Francia 2007 - durata 110’
Titolo originale: Chacun son cinéma
Regia: Amos Gitai, Luc Dardenne, Jean-Pierre Dardenne, Theo Anghelopoulos, Ethan Coen, Ken Loach, Zhang Yimou, Wong Kar-wai, Nanni Moretti, Takeshi Kitano, Abbas Kiarostami, Atom Egoyan, Joel Coen, Manoel de Oliveira, Wim Wenders, Olivier Assayas, Lars von Trier, Michael Cimino, Jane Campion, Claude Lelouch, David Cronenberg, Bille August, Walter Salles, Alejandro González Iñárritu, Gus Van Sant, Raoul Ruiz, Aki Kaurismäki, Raymond Depardon, Andrey Konchalovskiy, Roman Polanski, Chen Kaige, Hou Hsiao-hsien, Tsai Ming-liang, Elia Suleiman, Youssef Chahine
Con Josh Brolin, Grant Heslow, Emilie Dequenne, Jérémie Segard
Il tempo che ci rimane
Drammatico - Gran Bretagna, Italia, Belgio, Francia 2009 - durata 105’
Titolo originale: The Time That Remains
Regia: Elia Suleiman
Con Ali Suliman, Elia Suleiman, Saleh Bakri, Amer Hlehel, Menashe Noy, Nati Ravitz
Al cinema: Uscita in Italia il 04/06/2010
in streaming: su Nexo Plus
7 Days in Havana
Drammatico - Francia, Spagna 2012 - durata 100’
Titolo originale: 7 días en La Habana
Regia: Laurent Cantet, Benicio Del Toro, Julio Medem, Gaspar Noé, Elia Suleiman, Juan Carlos Tabío, Pablo Trapero
Con Josh Hutcherson, Emir Kusturica, Daniel Brühl, Elia Suleiman, Jorge Perugorría, Vladimir Cruz
Al cinema: Uscita in Italia il 08/06/2012
in streaming: su Apple TV Amazon Video Rakuten TV Timvision
Il paradiso probabilmente
Commedia - Francia 2019 - durata 97’
Titolo originale: It Must Be Heaven
Regia: Elia Suleiman
Con Elia Suleiman, Holden Wong, Robert Higden, Sebastien Beaulac, Pascal Tréguy, Basil McKenna
Al cinema: Uscita in Italia il 05/12/2019
in streaming: su Apple TV Google Play Movies Rakuten TV Rai Play MUBI Amazon Prime Video MUBI Amazon Channel Timvision