Uno dei momenti più belli di Gli Anelli del potere è musicale. «I trade all I’ve known for the unknown ahead» canta Poppy Proudfellow, la giovane harfoot (o pelopiedi, se vi piace la traduzione italiana: si tratta di antenati nomadi degli hobbit) che nella serie ricopre, a grandi linee, la funzione narrativa che aveva Sam in Il signore degli Anelli. Il brano, scritto da uno dei due showrunner e musicato da Bear McCreary (che, a parte la sigla composta da Howard Shore, firma l’intera colonna sonora: un lavoro evocativo e impeccabile) arriva imprevisto, ma è più che mai in linea con il modus operandi di Tolkien, che include sempre ballate, filastrocche, poesie tradizionali nella sua prosa, facendo lievitare l’impasto dei suoi mondi, oltre che attraverso lingue e genealogie, grazie a frammenti di immaginaria cultura popolare.
E il montaggio che segue, mentre Poppy intona «sing to me, sing to me, lands far away», traccia il percorso di migrazione degli harfoot sulla cartografia della Terra di mezzo, trasformando negli incredibili scenari neozelandesi quel potente dispositivo del fantasy che è la mappa, distillando in poche immagini il senso di meraviglia e d’avventura che da generazioni attira lettori e spettatori nell’universo di Arda. Per adattare il quale Peter Jackson ha dovuto rivoluzionare il cinema blockbuster, e ora Jeff Bezos mette a disposizione un miliardo di dollari.
Ma per gli autori - i fin qui “ghostwriter” J.D. Payne e Patrick McKay, tolkieniani di ferro - l’impresa è, se possibile, ancor più complicata: le Appendici da cui lo show è tratto saranno pure una frazione delle pagine di Il signore degli Anelli, ma riassumono millenni di Storia e soprattutto non possono contare su un’impalcatura narrativa romanzesca e infallibile come la quest di Frodo e compagnia. E forse lo scoglio più arduo di tutti è una questione di tono, di registro, di spirito: che sono quelli aulici del mito, quelli candidi del fiabesco, spogliati d’ogni ironia o malizia, d’ogni pretesa di “realismo”, così lontani - sotto molti aspetti - dalla scrittura televisiva contemporanea.
Anche per questo la serie è un oggetto strano, inedito e imperfetto, che ha lasciato interdetti molti: esteticamente magniloquente, con la stessa attenzione ai dettagli, alle atmosfere, alla composizione figurativa che aveva fatto il successo della prima trilogia jacksoniana, con quello stesso animo kolossal, ma destinato a una fruizione casalinga che inevitabilmente ne scalfisce la potenza visiva; organizzato attorno allo scorrere parallelo di linee narrative separate, e che talvolta finiscono per fare attrito tra loro, che domandano fiducia e pazienza. Per chi accetta di affrontare il cammino, però, lasciando il noto per l’ignoto, la strada è anche densa di tesori, di squarci immaginifici e subito indimenticabili: come la Galadriel furiosa, grandiosa anche perché a tratti sgradevole, di Morfydd Clark; come l’imponenza di Khazad-Dûm e Númenor, per la prima volta concesseci in tutto il loro splendore; come le amicizie “impossibili” tra Elrond e Durin, tra Nori e lo straniero; come la cenere rossa di Mordor che ricopre di disperazione ogni cosa. D’altronde, così rispondono al canto le terre lontane: «Not all who wonder or wander are lost».
La serie tv
Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere
Fantasy - USA 2022 - durata 72’
Titolo originale: The Lord of the Rings: The Rings of Power
Con Richard Price, Jim Broadbent, Jackson Bews, Edith Poor, Miranda Wilson, Jed Brophy
in streaming: su Amazon Prime Video
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