Cineasta e scrittore di colossale levatura, decisivo nella modernizzazione cinematografica del suo paese, offuscato forse da troppe generazioni eccezionali di cinema iraniano successivo (e anche per questo a lungo dimenticato qui da noi), Ebrahim Golestan ha intrapreso, talvolta, percorsi paralleli a quelli di Jean-Luc Godard. Il suo stupendo Mattone e specchio (1963), recentemente restaurato e programmato da RaiPlay, può ad esempio essere visto legittimamente come un controcampo amaro de La donna è donna (1961). Ecco dunque che l’artista esule Mitra Farahani decide di scoprire le carte: lo svizzero e l’iraniano sono davvero rette parallele o si incontrano in qualche punto? Da lei sobillata, una corrispondenza via e-mail tra i due comincia ad estendersi lungo molti mesi.
Godard viene visto aggirarsi nei suoi modestissimi appartamenti, tra un calzino spaiato e un raccoglibriciole elettrico, un po’ con l’allure dello zio pazzo che parla da solo (ma dov’è la moglie Anne-Marie Miéville?). L’altro, a quasi cento anni di età, scorrazza ancora pimpante nella sua enorme e lussuosa magione del Sussex, chiama gente a cena, fa lo spiritoso: insomma, vive ancora alla grande nonostante gli acciacchi. L’elvetico gli manda brandelli di letteratura e di pittura che Golestan prende sempre sistematicamente nel modo sbagliato: cerca cioè di interpretarli, brancolando nel buio alla ricerca di un significato che non c’è, anziché lasciarsi andare al gioco godardiano in cui le intuizioni estemporanee non servono mai a niente se non a stimolarne altre.
La sua prospettiva è quella del tipico umanista: la sua padronanza accademica e un po’ polverosa di secoli di riferimenti culturali (Piero della Francesca, Hemingway…) rimane solidamente al servizio dell’indagine sull’essere umano, e l’iraniano non ha alcuna intenzione di gettarla alle ortiche, come cripticamente gli suggerisce Godard, per seguire quest’ultimo nel suo nevrotico rapporto di amore-odio verso la letteratura, costantemente rigettata in favore dell’immediatezza dell’immagine (pittorica soprattutto), ma a cui egli non cessa mai di fare puntualmente ritorno, in un andirivieni ermetico, respingente, ma straordinariamente proficuo. Uno è da sempre in lutto per una cultura umanistica che non riesce, istericamente, ad abbandonare davvero: l’altro, anche grazie ad essa, vive, vive bene, vive ancora, e non vuole fare altro. Insomma: il più classico dei dialoghi tra sordi; “tutto piuttosto insoddisfacente”, come recita il finale de L’uomo ombra di Dashiell Hammett, amato da entrambi.
Le rette parallele non si incontrano mai e nell’infinito spazio tra una e l’altra Farahani si scatena con invenzioni visive e digressioni continue – mai veramente spiacevoli, ma quasi sempre un po’ gratuite, anche quando viene giocata la carta dell’umanizzazione e della quotidianizzazione, con i due titani alle prese con la vecchiaia e le noie ospedaliere. Come ci ricorda la voce fuori campo, furono analoghi contrattempi materiali a rendere, per contrasto, Beethoven ancora più grande; nonostante il respiro un po’ corto, A vendredi, Robinson (disponibile gratuitamente su Arte.tv) non può non affascinarci anche solo per l’occasione, verosimilmente tra le ultime, che ci dà di vedere sullo schermo non uno, ma due dei Beethoven del secolo scorso.
IL FILM
See You Friday, Robinson
Documentario - Francia, Svizzera, Iran, Libano 2022 - durata 96’
Titolo originale: À vendredi, Robinson
Regia: Mitra Farahani
Con Jean-Luc Godard, Ebrahim Golestan
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