L’operetta di Offenbach scavalca il secolo e piomba nel Novecento del cinema muto. Si fermerà a Vienna per poi fiondarsi a Hollywood. Prima, però, incontra a Stoccolma Ragnar Hyltén-Cavallius, regista e sceneggiatore svedese di Greta Garbo (La saga di Gosta Berlin, 1924). E si scopre così, alle Giornate del cinema muto di Pordenone, una scandinava sophisticated comedy nella forma delle origini, ma senza la caratteristica del genere, i dialoghi. Didascalie scoppiettanti e musica dal vivo (al pianoforte Andrej Goricar) parlano al posto loro in Sua maestà il barbiere (1928), presentato nella sezione Ruritania, il paese immaginario di Il prigioniero di Zenda, ispiratore di molti titoli tutti ambientati nei misteriosi e fantastici Balcani.
Equivoci, frenesia, umorismo e centralità della maschietta nell’Europa dei primi anni del secolo, là dove Billy Wilder, “il ballerino a pagamento”, divideva lo stesso albergo berlinese, l’Eden Hotel, con Louise Brooks/Lulu, e si preparava al salto hollywoodiano. E dove il regista di A qualcuno piace caldo forse ha incontrato il connazionale Paul Merzbach, sceneggiatore del film (e anche eccellente regista) che incrocia Vienna con Hollywood in un gioco di rimandi tra parodia dell’aristocrazia e presenza allegramente distruttiva della “New Woman” americana.
Il film segue di un anno It (1927), il manifesto di Elinor Glyn su “quel certo non so che”, e ne illumina la genesi sulle sponde di un paese immaginario, Tirania, regno devastato da un colpo di stato cruento, che rievoca – secondo l’interpretazione dei curatori di Ruritania – l’uccisione del re di Serbia, Alessandro I Obrenovic, e della regina Draga nel 1903.
La spaventosa sequenza di ombre e massacri nella reggia di Tirania, vista in flash-back dai protagonisti, cozza con l’allegria spumeggiante da pochade del racconto, ma dice qual è il costo pagato per la liberazione dal vecchio regime. La corona come feticcio da sbeffeggiare sembra anche un esorcismo contro la caduta imminente della Repubblica di Weimar e l’arrivo del nazismo. La fuga di cineasti ebrei sarà verso l’America, mentre l’autore del sorprendente soggetto di Sua maestà il barbiere si rifugerà a Londra.
La storia. Il bel Nickolo - Enrique Rivero, cileno, ma definito per l’occasione “il Rodolfo Valentino svedese” - torna dagli studi universitari inglesi nella sua città sulle coste della Svezia, dove suo nonno fa il barbiere. Ma, invece di far carriera, preferisce sfoggiare il suo talento nelle moderne acconciature femminili. Si passa dai boccoli vittoriani ai tagli corti, al caschetto stile Colleen Moore dei “ruggenti anni Venti”. La monarchia viene sforbiciata sulla poltrona girevole del barbiere, e una spasimante di Nickolo a forza di farsi tagliare i capelli inventa lo stile shingle con la nuca quasi rasata a zero.
Seguirà negli anni un altro famoso barbiere, anche lui in lotta comico-drammatica con il tiranno, il Chaplin di Il grande dittatore (1940), ispirato al silent-movie King, Queen, Joker (1921) regia di Sydney Chaplin, fratellastro maggiore di Charlie. Il film racconta del re dispotico di uno stato di fantasia, sostituito da un sosia barbiere pieno di humour e di gentilezza.
Sullo sfondo di Sua maestà il barbiere c’è invece il fantomatico re di Tirania, ucciso durante il colpo di stato evocato dal nonno di Nickolo, inconsapevole futuro erede del trono, affidato, neonato, al parente svedese. E quel che potrebbe risolversi con un happy-end – il matrimonio tra il principe/barbiere e la bella duchessa del posto – prende la strada imprevista di una commedia degna di Lubitsch, il quale l’anno dopo, nel ‘29, dirige Il principe consorte, un film dove al posto della Ruritania c’è lo stato di Sylvania, un’altra invenzione, confinante con la Freedonia dei fratelli Marx (La guerra lampo dei fratelli Marx, ‘33), collocata, come tutti i film ruritani, più o meno nei Balcani.
Il rimbalzo verso Hollywood della commedia austro-svedese si serve della forza propulsiva di una Clara Bow svedese, Brita Appelgren, che, nella parte della ricca Astrid Svensson, prima snobba il bel barbiere e poi, saputo del suo sangue blu, gli chiede di abdicare per dimostrare la voglia di libertà e indipendenza. Nickolo-principe, in realtà, è il frutto di un imbroglio ai danni di 5 nonni, ai quali due falsi cortigiani hanno fatto credere in cambio di denaro che i (falsi) nipoti (prelevati da un orfanotrofio) sono gli eredi al trono. La sequenza degli ignari “principi”, che escono in pigiama dalle cabine sulla nave diretta a Tirania con in mano una corona e l’attestato reale, ricorda il “direttore di porte”, sempre Lubitsch, con un apri e chiudi esilarante.
La smania europea di appartenere all’aristocrazia è impersonata dalla buffa zia di Astrid, una massiccia signora dai capelli fluenti, risultato di un siero miracoloso che l’ha resa milionaria. Sarà “educata” alla democrazia non solo dalla nipote, ma anche da Nickolo, lo studente di città contrario al vecchio mondo, e pronto a far dell’arte del coiffeur un business. Aprirà una catena di barber shop insieme alla moglie Astrid, che si è fatta tagliare i riccioli e assomiglia sempre più a una dandy d’oltreoceano, tanto che il giornale svedese Folkets Daghlad Politiken scrisse nel ‘28 all’uscita di Sua maestà il barbiere: “Questo film non è né carne né pesce, ma una miscela di farsa americana e di commedia tedesca, di commedia isolana svedese e di opera viennese...”. Ecco descritta la perfetta miscela della sophisticated comedy.
Il film
Sua Maestà il barbiere
Drammatico - Germania, Svezia 1928 - durata 82’
Titolo originale: Majestät schneidet Bubiköpfe
Regia: Ragnar Hyltén-Cavallius
Con Hans Junkermann, Enrique Rivero, Brita Appelgren, Karin Swanström, Maria Paudler, Fritz Alberti
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