Si guarda a SanPa, più al suo successo che al metodo e alla forma, anche se la possibilità di raccontare un paese attraverso la ferita di una truffa ci sarebbe: l’esplosione delle televendite sulle tv locali, l’edonismo, l’illusione collettiva, la mercificazione del bisogno, del male e della cura. Si direbbe assorbita anche la lezione di Tiger King, perché il mostro (Wanna, e gli altri, Stefania e Do Nascimento, sempre in secondo piano) è in video, parla, (si) racconta nelle interviste, si espone al giudizio postumo e pubblico.
Intorno le posate dei testimoni (soprattutto i venditori storici, tutti trasfigurati dalla vecchiaia nell’oblio, tranne Roberto da Crema) e dei giornalisti (prima di diventare una comparsa di destra da talk Stefano Zurlo ha condotto delle inchieste). Invece non c’è nulla dei modelli aurei, rimane la formula (per)vertita nella sua versione più stantia, e pretestuosa.
Il trattamento di Wanna in presenza lascia fuori qualsiasi scavo e approfondimento: semplicemente le si concede un’altra possibilità di vendere e di vendersi. I comprimari (soprattutto quelli che sono sopravvissuti al crollo della bolla delle vendite in tv) non hanno forza tragica, dimostrano la pochezza dei tempi, non sono nemmeno dei sopravvissuti, ma dei ripescati, buoni per un Grande fratello VIP. Manca completamente il racconto del paese, delle vittime, ed è un vuoto, un buco, enorme, al pari dell’assenza strutturata della voce dell’accusa (non basta qualche spezzone da Un giorno in pretura). Rimane il montaggio dei materiali di repertorio, ma solo per ricordarci che quella era una brutta tv.
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