In italiano ci sono tre parole per rendere l’idea dell’atto visivo: guardare, vedere, osservare. Si usano come tre sinonimi ma sono parole diverse, che nel loro slittamento etimologico rivelano qualcosa.
Vedere viene da una parola indoeuropea, che identifica l’azione della vista con la conoscenza - vedo e so, in un unico gesto intellettuale, mentale; guardare rimanda a uno stato di guardia, una postura di visione, uno sguardo che tiene sotto controllo (spesso si dice che si guarda ma non si vede, quando manca l’intellezione e ci si appoggia alla rigidità dell’abitudine); osservare invece deriva etimologicamente (ob-servare) da un campo semantico che rimanda alla custodia, al tenere presso di sé, al curare, al conservare.
È questo il tipo di sguardo con cui Pierre-Yves Vandeweerd, documentarista radicale, sperimentatore di forme, antropologo ed etnologo prestato alle immagini, interpreta la realtà: non lo sguardo intellettivo che comprende tutto e informa, non lo sguardo di controllo che contiene e legittima, ma lo sguardo che conserva la realtà, che protegge ciò che c’è. O meglio, ciò che c’è ma non si vede, ciò che è là ma nessuno guarda, ciò che rimane invisibile e forse lascia giusto una traccia minima.
Come le voci degli esiliati beduini saharawi del deserto marocchino (in Lost Land), come i volti persi nelle tempeste di neve dei pastori del Lozère (in Les Tourmentes), come i corpi del popolo yezida e armeno dopo i massacri, le deportazioni e i genocidi subiti dal secolo scorso fino all’attuale guerra nell’Alto Karabakh.
Proprio su quest’ultimo trauma culturale rimosso dalla coscienza occidentale è incentrato Inner Lines (disponibile gratuitamente su Arte.tv), film in cui Vandeweerd cerca di trovare una struttura di visibilità, un’immagine che mostri qualcosa che già non è più, una serie di figure che conservino a memoria questo “non più”, questo “quasi più niente”, strappandolo dall’abissale dimenticanza.
Per farlo non adopera una storia, non presenta dei dati, non si cala nei panni dello storico, anche se parte da radici lontane e simboliche per raccontare il dolore dei popoli che sempre hanno gravitato intorno al monte Ararat (quello su cui, secondo il codice biblico, si fermò l’Arca dopo il diluvio); piuttosto cerca di inquadrare ciò che è ancora presente e tiene in sé un segno, una proiezione di passato.
Per questo osserva i volti, le mani, gli occhi dei giovani eredi di una stirpe di esuli e profughi in un paesaggio senza soluzione di ostilità: nelle pieghe della pelle del loro tempo trova un patrimonio di fenomeni dormienti, minacciati dal buio dell’oblio, da irraggiare con una luce che non è mai mera consolazione pietistica, ma è sempre occasione di esperienza memoriale.
Il film di Vandeweerd inventa uno spettatore testimone, o meglio, uno sguardo testimone fuori da ogni spettacolo: sguardo simile a quelle possibili linee di salvezza (le “inner lines” del titolo) che stanno dietro alle barriere nemiche e portano fuori da una realtà sul punto di dissolversi un sottile ricordo di luce, alla maniera di un rifugio insperato per ciò che sembra perduto.
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