Come capisci che sei in una serie di Ryan Murphy? Quando il sottotesto è già smaccato sin dal primo episodio, ma arriva pure un personaggio a esplicitarlo in un dialogo: qui è Jesse Jackson, politico e attivista afroamericano, che testualmente spiega come quello di Jeffrey Dahmer, il “mostro di Milwaukee” trovato colpevole nel 1991 dell’uccisione di 17 persone, su alcune delle quali praticò atti di cannibalismo, non sia solo un caso di cronaca, ma «una metafora di tutti i mali sociali che piagano la nostra nazione».
Questa la tesi della miniserie, argomentata nell’ampio respiro di dieci episodi in un’ideale crasi delle American Horror Story e delle American Crime Story che Murphy intesse da oltre due lustri, facendo discendere a estuario dal mostro Dahmer tutti gli angoli oscuri che la sua breve e agghiacciante esistenza ha toccato. La narrazione è fluidamente corale, spostandosi dal dominante punto di vista di Jeffrey (Evan Peters, habitué di Murphy, chiamato a una prova di misura millimetrica) a quello dei suoi genitori (in particolare il padre, un sensazionale Richard Jenkins), della vicina di casa Glenda Cleveland (Niecy Nash, struggente), che più volte tentò invano di denunciarlo, e di alcune delle sue vittime (come Tony Hughes, ragazzo sordomuto protagonista di uno degli episodi più belli, il sesto, girato in parziale assenza di colonna audio). Tramite questi slittamenti emergono i veri mostri: il razzismo sistemico in primis, che consentì a Dahmer - bianco, biondo, piacente - di farla franca in modi perfino surreali, mentre le sue vittime, quasi tutte pescate da quartieri poveri e locali gay a prevalenza ispanica e afroamericana, erano ignorate (uno di loro, il quattordicenne Konerak Sinthasomphone, fu letteralmente scortato dai poliziotti dentro la casa di Dahmer dopo un tentativo di fuga).
E poi la discriminazione contro gli omosessuali (negli stessi anni dei delitti di Dahmer già vittime dello stigma dell’AIDS), la bigotteria esiziale degli States (Jeffrey soppresse le sue pulsioni gay in modo progressivamente sempre più malato sin dalla giovane età), il malinteso sulla salute mentale che fece attraversare a Dahmer college, accademia militare e carcere senza che gli fosse diagnosticato alcun disturbo; la morbosità mediatica e la tendenza a romanticizzare i serial killer che resero il mostro di Milwaukee un idolo per satanisti della domenica. Un affresco stratificato, ora iper didascalico ora potentissimo, tanto attento a cogliere la complessità della materia (Jeffrey era lucido? Aveva sentimenti? È possibile o anche solo lecito provare a capirlo? La colpa è dei genitori? Della società?) da riuscire a scontentare tutti (negli Usa l’hanno smontato, tra i tanti: critici televisivi, famiglie delle vittime, comunità LGBT+; intanto però è il lancio di serie di maggior successo nella storia di Netflix), come solo Murphy sa fare. Qui si affida a registi come Gregg Araki (bentornato) e Jennifer Lynch, capaci di navigare le ambiguità e tenersi sul filo sottile tra orrore puro e ricostruzione minuziosa, e alla colonna sonora nerissima di Nick Cave & Warren Ellis per costruire un incubo vischioso e frastornante, le cui domande senza risposta risuonano a lungo dopo la visione.
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