Giuro su tutti gli dèi della comicità – è un pantheon pieno di gente tracagnotta e gioviale e arrabbiata che fa sembrare Dioniso un mormone che non beve neanche il tè freddo – che questa settimana c’era in programma di dare il corretto spazio a un bravo comico inglese, Russell Howard, di quelli belli e carismatici che ridono delle proprie (simpatiche) battute e seducono il pubblico nel farsi seguire in una fisiologica risata. Il piano era quello, e sicuramente ci torneremo. Ma poi ho scoperto che Netflix ha appena distribuito uno speciale – non il primo in assoluto (ce n’è stato un altro nel 2011 per Comedy Central) ma sicuramente è un evento piuttosto raro – scritto e interpretato da Nick Kroll. Nick Kroll è quello, in Italia, conosciuto per essere il migliore amico del cuore di John Mulaney, ma soprattutto per avere creato (e doppiato in lungo e in largo) le cinque stagioni di Big Mouth, il documentario (si fa per dire) animato sul funzionamento degli ormoni all’entrata nell’adolescenza più divertente e profondo (e volgarmente esplicito) che possiate trovare.
In realtà, al di là delle rarità che sono riuscite faticosamente ad arrivare in Italia grazie alla rivoluzione Netflix, Kroll è letteralmente una pietra angolare della tv brillante americana degli ultimi dieci anni. Letteralmente perché, dall’esordio a oggi, ha collezionato una pagina di IMDb che, se continua così, a fine carriera ci vorrà una settimana buona solo per scrollarla fino in fondo. Oltre a comparsate, apparizioni, ruoli secondari o da co-protagonista, il comico americano è stato anche creatore e mattatore di tre stagioni di uno sketch show eponimo (Kroll Show) che, come tutto il resto del genere (Saturday Night Live e Key & Peele compresi) non sembra attecchire fra il pubblico italiano e quindi rimane inedito, nonostante il successo in patria. Tutto questo solo per ribadire che Kroll è uno di quei comici follemente eclettici, a proprio agio con qualsiasi iterazione di quel linguaggio, che sia come attore, come sceneggiatore, come comico stand-up, come doppiatore, come imitatore, come presentatore, nascosto dietro una caricatura o nei panni di se stesso. Si può ben dire che questo suo ultimo speciale (Little Big Boy, pubblicato su Netflix) sia una summa di tutte queste anime comiche – esclusa forse quella degli sketch, che per loro natura devono essere costruiti con costumi, scenografie e l’interazione con altri attori.
La cosa buffa del passare dallo splendido (e ribadiamo: bravissimo) Russell Howard al brutto anatroccolo Kroll, sta proprio nel passaggio da un comico che non ha insicurezze da mostrare – e quindi può aprire il suo sguardo su quello che ha di fronte e condividere il suo punto di vista – a uno che invece fa dei propri patemi con l’autostima il filo rosso di uno spettacolo che a più riprese assomiglia più a una seduta di psicoterapia che a un semplice stand-up. Tanto che Kroll esordisce direttamente con la sua origin story da comico, stabilendo fin da subito che la sua carriera scaturisce oltre che dalla sua indole e dai suoi talenti, anche dal suo destino e da una genetica che lo ha fatto sviluppare, fisicamente ed emotivamente, piuttosto tardi. Kroll diventa guitto fin da ragazzino, nel momento in cui, a una festa, per scherzo gli calano braghe e mutande da pre-adolescente con uno sviluppo ormonale rilassato proprio di fronte alla ragazzina cui moriva dietro da tempo.
Kroll ha talmente poca autostima per quanto riguarda il proprio aspetto estetico, che quando si rimira allo specchio la mattina uscito dalla doccia, dopo che l’eczema causato dalla sua intolleranza al lattosio si sfoga, sente nella sua testa la voce di Jason Statham che lo bullizza, «Brutta iguana grassa». Non è certo l’unico momento apparentemente sgradevole dello spettacolo: ci sono molte scoregge e molta cacca in questo speciale, così come un sacco di fantastiche voci. Sfoghi adolescenziali fuori tempo massimo e performati da un adulto perfettamente consapevole che questo strano scollamento fa parte della sua personalità e può essere usato con intenti comici. Quello di Kroll pare lo stand-up di una persona alle prese con un disturbo da deficit dell’attenzione tenuto abilmente sotto controllo e utilizzato come super potere: salta di palo in frasca pur riuscendo a mantenere il focus di fondo sul filo rosso dell’autoflagellazione. Lo spettacolo, però, ha anche una parabola narrativa – oltre all’incipit, la origin story, c’è anche un finale ben preciso che segna l’evoluzione del personaggio (e della persona) Kroll – e un’energia tale da non perdere l’attenzione dello spettatore nonostante l’innumerevole susseguirsi di stimoli.
Kroll è davvero senza filtri nei propri confronti, nel senso che è la vittima della maggior parte delle punchline. Ci va giù pesante, ma non cattivo. Severo, ma giusto. Ed esilarante. Sembra una persona troppo autocritica che somatizza scrivendo battute sulle proprie innumerevoli idiosincrasie, inciampi, fallimenti. Dai più grandi e dolorosi – le donne e la supposta mancanza di prestanza fisica, virilità, mascolinità – ai più piccoli e triviali – l’intolleranza al lattosio, l’eczema, la dipendenza da sigarette e cibo spazzatura.
Kroll porta anche le prove che le storie che racconta sono vere. Come a dire: non provate a scappare, mi sto mostrando completamente nudo e disgustoso. Sono così, siamo così. Smettete di far finta di niente, che tutto sia perfetto e patinato e pettinato. Kroll si racconta portando in scena, a parole, un immaginario ricchissimo, fantasioso e incredibile. Uno stupefacente florilegio di ingegno ideato per decostruirsi, a colpi di autocommiserazione che fa il giro e diventa proposizione, e ricostruirsi sul palco di fronte a un folto gruppo di estranei. Talmente catturati da questo spettacolo così intimo da bersi anche un paio di riferimenti oscuri alla cultura pop anni ‘90, come il cenno al personaggio di Vincent D’Onofrio in Men in Black o la menzione più unica che rara a Eagle Eye Cherry. Questo per dire quanto Kroll sia completamente a suo agio nel vendere se stesso dopo essere riuscito ad accettarsi per quello che è. E funziona. Funziona perché è perfettamente consapevole di quello che sta facendo e ha il pieno controllo sul tono dello spettacolo.
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