Si potrebbe pensare che per Michaela Coel creare (e interpretare, produrre, co-dirigere) questa serie sia un atto di liberazione e catarsi personale: mettere in finzione la storia autobiografica dello stupro che ha subito, dopo essere stata drogata con un cocktail adulterato, e del suo percorso di elaborazione della violenza e del trauma. Invece no: tramite un men che velato alter ego - Coel interpreta Arabella detta Bella, come lei scrittrice britannica in rampa di lancio, non di serie tv ma di un romanzo ispirato al successo dei suoi post social sul disagio millennial - l’autrice prende il suo trauma e lo mette in mano a noi spettatori, come uno specchio brutale che nessuno le aveva chiesto di posarci davanti alla faccia, per dirci che quella violenza è parte di un sistema, di una cultura, e che ci siamo dentro tutti.
Il blackout della notte dello stupro rende confusi i ricordi dell’aggressore di Bella, ma affacciarsi oltre i bordi sfrangiati e taglienti di quel buco di memoria significa guardare le molteplici facce della violazione del consenso: il partner che si sfila il preservativo senza avvertire, quello che scatta foto di nascosto durante l’atto sessuale, l’omissione di informazioni che mina il libero arbitrio in fase di seduzione; e ancora, traboccando legittimamente dal vaso del #MeToo in un’ottica intersezionale, la mancanza di rispetto di chi esige da un’attrice afrodiscendente la rimozione della parrucca, o di chi la usa come black token, contentino inclusivo per acchiappare like.
Bella/Coel inciampa in una di queste situazioni a ogni passo della sua indagine per identificare (e punire? Io potrei distruggerti) il suo aggressore: la serie applica - e poi deforma in soluzioni grottesche, oniriche e spesso esilaranti - uno schema da detection che scivola nella farsa perché non c’è alcun mistero da risolvere, nessun sospetto da inchiodare se non una cultura dello stupro che si alimenta, anche, delle armi spuntate della sua controparte. Nel suo percorso di elaborazione del trauma, infatti, Bella fa tappa nell’attivismo social, con shitstorm scaraventate sui molestatori, hashtag e dirette Instagram che appiattiscono fatalmente il discorso: I May Destroy You è, tra le tante cose, anche uno squillante invito a muoversi oltre i filtri metaforici e letterali dei social, oltre il populismo dei meme e gli assiomi dei caroselli di slide per restituire ai nostri traumi, ai nostri corpi, una doverosa complessità.
Lo fa nella forma di una serie che non somiglia a nient’altro, che da noi arriva con due anni di ritardo ma che per fortuna e purtroppo sarà sempre puntuale, liberissima nell’andamento non cronologico e nello spaziare tra il centro di Londra e la spiaggia di Ostia, nel muoversi da un personaggio all’altro tenendo saldo al centro il corpo femminile, nudo e autentico, con i suoi desideri, le sue secrezioni (il coagulo mestruale in primo piano è programmatica e liberatoria rottura di un tabù), la sua forza generativa e quella distruttiva; niente di magico né di misterioso, niente di fragile né di dolcemente complicato, niente che ci si possa prendere il lusso di semplificare né di banalizzare.
La serie tv
I May Destroy You
Drammatico - USA, Gran Bretagna 2020 - durata 29’
Titolo originale: I May Destroy You
Creato da: Michaela Coel
Con Michaela Coel, Lewis Reeves, Franc Ashman, Karan Gill, Lara Rossi, Kadiff Kirwan
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