Nel bene e nel male, La chiave, disponibile sul canale Minerva Classic di The Film Club, è uno di quei film che hanno cambiato la storia del cinema italiano. E (io c’ero, lasciatemelo dire) scoppiò abbastanza inaspettato. Nel 1983 Tinto Brass non era stato ancora bene inquadrato.
Un passato di regista nouvelle vague-pop-alternativo, due tentativi di sbancare il botteghino - Salon Kitty e Caligola - che non erano piaciuti a nessuno (il secondo neanche ai produttori). Ed ecco che, quando iniziano a sbarluccicare gli anni 80 (e le sale a luci rosse sono ancora aperte), Tinto fa il botto con un film erotico per il grande pubblico, che osa forse più di quanto si fosse osato finora, e che è anche un film d’epoca, ambientato negli anni del fascismo, ispirato (strano mix) a un romanzo di Tanizaki tradotto da Bompiani nel 1963.
Un romanzo contorto, cervellotico, molto morboso, quasi klossowskiano, con un marito che istiga i tradimenti della moglie facendole leggere il suo diario. E che viene calato con la massima naturalezza a Venezia, una città di cui Tinto conosce ogni anfratto dai tempi di Chi lavora è perduto: una città mona (Apollinaire dixit), una città marcia come il fascismo, dove si spappolano le pulsioni senili di un vecchio porco. Ma accanto al lato mortifero c’è quello solare: il colpo di genio, ovviamente, fu di assoldare Stefania Sandrelli per la parte della moglie. Un’attrice la cui carriera all’epoca ristagnava e che concede di più di quanto avesse mai fatto un’attrice di serie A.
Non che avesse mai avuto problemi con il suo corpo - e le sue interpretazioni in Quelle strane occasioni e in Dove vai in vacanza? andavano in questo senso. Ma in La chiave Sandrelli va oltre, pur nei limiti del softcore - a volte con l’alibi della citazione colta (il kamasutra di Marcantonio Raimondi), a volte lasciandosi esplorare dalla macchina da presa e prefigurando la ginecologia (poi sempre più meccanica e alla fine squallida) dei film brassiani a venire. Cose che si sono impresse nell’immaginario di una generazione. Ma facevano impressione anche le sale stracolme di gente “normale”, non di pipparoli del mercoledì pomeriggio.
La chiave è uno dei film con cui termina definitivamente il lungo strascico degli anni 70: un film in bilico tra trasgressione d’autore e normalizzazione della trasgressione, tra fantasia funebre e gnocca di massa - quella cui allude Fellini in La voce della Luna (ma Tinto non ha mai avuto un briciolo della capacità felliniana di leggere il presente). Prima di diventare il triste emblema di un’Italia in cui non c’era più niente da trasgredire, ai tempi di La chiave Brass aveva ancora bisogno di Arte, di condire il culo con la cultura (il valzer di Strauss arrangiato da Schönberg, scusate se è poco). E, da anarchico, diceva anche un paio di cose non banali sul fascismo (vedi il personaggio della figlia repressa, interpretata da Barbara Cupisti).
Mi piacque così tanto, all’epoca, che lo vidi in sala almeno tre volte, di cui una a Vienna (chissà perché avevano sforbiciato il fallo finto di Branciaroli, che poi nel dvd ha acquistato più spazio). Proposi una recensione a “Filmcritica”, ma mi dissero che non era il caso. Mi rifaccio adesso.
IL FILM
La chiave
Erotico - Italia 1983 - durata 110’
Regia: Tinto Brass
Con Stefania Sandrelli, Frank Finlay, Maria Grazia Bon, Franco Branciaroli
in streaming: su Google Play Movies Rakuten TV Timvision
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