Nella stanza dove Saul Goodman e Walter White attendono di essere esfiltrati verso vite sotto falso nome, condividono aneddoti del passato, e Walter chiosa secco: «Quindi sei sempre stato così». È sempre stato così, Saul, che un tempo era Jimmy McGill e ora si accinge a diventare Gene Takavic, ma così come? Superficiale? Insoddisfatto? Abbonato all’autosabotaggio?
La sua tragica, umanissima parabola durata sei stagioni (più quelle di Breaking Bad, che quest’annata interseca, per poi superare, ponendosi dunque come maestosa conclusione di un universo narrativo durato in totale 14 anni) si inserisce di diritto sullo scaffale dei grandi romanzi seriali con protagonisti tormentati: accanto a Tony Soprano, a Don Draper, ovviamente a Walter White, c’è ora Jimmy/Saul/Gene, che però, a dispetto degli slittamenti anagrafici, non è mai stato scisso come i succitati antieroi. Lui è sempre stato così.
E questo magnifico, elegantissimo capitolo finale è la resa dei conti di un uomo con se stesso, la catarsi moralista e liberatoria di un individuo che ha fatto i salti mortali per non guardarsi allo specchio, per non ammettere di detestarsi, e che finalmente si accetta per quello che è. Accogliendone le conseguenze, senza più scappare, senza più dare spettacolo («it’s showtime» sussurra per l’ultima volta, prima di far cadere ogni residuo di menzogna), usa tutte le falle e i vizi di un sistema giudiziario che sa sempre manovrare come un giocattolo; ma questa volta non per farla franca, bensì per essere franco.
La simmetria della stagione è impeccabile: al ritmo da comicità slow burn del primo volume corrisponde l’atmosfera noir e disillusa del secondo; all’apice di Saul come avvocato dei criminali, la sua mutazione in imputato e altrui cliente; al colore sgargiante la discesa nei bigi inferi in bianco e nero dei segmenti che, infine, trasformano Better Call Saul da prequel a sequel.
Con una messa in scena raffinata, piena di invenzioni, che non si è mai stancata di chiamare in causa l’intelligenza e l’attenzione dello spettatore (anche attraverso un meccanismo di semina & raccolta vertiginoso, che avviluppa sei annate nel ritornare di dettagli preziosi; un sacchetto di diamanti, un libro di H.G. Wells, pistole mimate con indice e pollice che valgono più di mille dichiarazioni d’amore), “cinematografica” perché consapevole della potenza delle immagini e dei silenzi, prima delle parole, la serie di Vince Gilligan e Peter Gould raggiunge l’eccellenza con classe, usando l’intersezione con la serie madre con parsimonia (più dei camei di Jesse & Walt, spicca quello di Marie Schrader, a rendere catartica giustizia alla fine di Hank).
E il concetto di “serie madre” è, finalmente, archiviato da una conclusione che rende evidente come Walter non sia che un comprimario («non avrebbe potuto fare niente senza di me», si autoaccusa Saul, reclamando per sé lo status di vero antieroe); e i fatti di Breaking Bad solo la punta dell’iceberg della più ampia e matura commedia umana di Better Call Saul. Un’opera compiuta. Anche, in modo limpido, e grazie alle prove superlative di Bob Odenkirk e Rhea Seehorn, una delle più struggenti e realistiche storie d’amore del piccolo schermo.
Leggi il riassunto di tutte le stagioni di Better Call Saul scritto con molto amore da Ilaria Feole
La serie tv
Better Call Saul
Drammatico - USA 2015 - durata 47’
Titolo originale: Better Call Saul
Creato da: Vince Gilligan
Con Raymond McAnally, Giancarlo Esposito, Frank Deal, Richard Beal, Gabriel Rush, Bob Odenkirk
in streaming: su Netflix Netflix basic with Ads
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