Siete contenti che Favolacce venga distribuito su piattaforma o avreste preferito aspettare la riapertura dei cinema?
Siamo combattuti su questa scelta, sono stati combattuti produttori e distributori. Da un lato la delusione c’è, perché il film è stato concepito per la sala. Se l’avessimo ideato per il piccolo schermo l’avremmo pensato esteticamente (ed economicamente) in modo differente. L’avremmo ridimensionato, letteralmente. Ma d’altro canto stiamo lavorando a una serie per Sky, dunque per la tv, e la nostra formazione cinefila è passata sul piccolo schermo di un computer. Film coreani, film non distribuiti in Italia, film sottotitolati in inglese. Il piccolo schermo non è mai stato, per noi, un limite all’immaginazione. C’è anche da dire che probabilmente il nostro film, in sala, avrebbe raggiunto meno pubblico di quello che ci è stato possibile raggiungere, anche in pochi giorni, in VOD... Sono tutte congetture, ma come tutto in questo momento. In fondo, Favolacce è anche un film che dialoga con questo periodo: l’isolamento, un inaridimento dei sentimenti...
Aspettate: quindi tra chi dice che saremo migliori e chi dice che saremo peggiori, dopo la quarantena, state coi secondi?
Mmmh, la pensiamo in maniera veramente discordante, l’uno con l’altro, su questo argomento.
Torniamo a Favolacce: è il primo a cui avete lavorato, e leggenda vuole che ne abbiate parlato con Matteo Garrone, importunandolo in un ristorante. È vero?
L’incontro è avvenuto veramente, ma gli parlammo di La terra dell’abbastanza. Lo provocammo un poco: lui aveva appena finito Il racconto dei racconti ed era in cerca del film successivo, noi gli dicemmo: «Ma perché non fai un altro film come Primo amore?». È un film che lui non ama, per diversi motivi, e noi sì, tantissimo. Questa cosa deve averlo colpito. Il giorno dopo eravamo da lui con il copione di La terra dell’abbastanza (forse non l’ha mai letto). Poco dopo iniziammo a collaborare per Dogman.
Il titolo Favolacce ricorda subito la lingua greve e sognante del cinema di Sergio Citti.
Il titolo è cambiato molte volte. Il protocollo era tornare nelle case di produzione dove eravamo già passati, riportando il copione nella speranza che stavolta lo leggessero: cambiare il titolo era un modo per farlo sembrare nuovo. Favolacce ci piaceva: è secco, è la crasi tra favole e parolacce. Un titolo è come il nome di un figlio: se ci pensi troppo vuol dire che è sbagliato. Comunque Sergio Citti, come anche Scola e Pasolini, a cui nelle ultime interviste associano il nostro lavoro, sono registi che conosciamo marginalmente.
Penso che Citti vi piacerebbe molto.
Sì, anche nostro padre ce lo dice. Siamo cresciuti in una casa piena di VHS, tra cui quelle dei film di Citti, di Pasolini. Forse abbiamo dato per scontato sarebbero stati lì per sempre. Così abbiamo preferito scoprire cose diverse: il cinema asiatico, Cassavetes, Ford. Abbiamo grosse lacune, che prima o poi dovremo colmare. Quando hai la fortuna di intraprendere un percorso artistico mosso solo dalla tua voce interiore, non avere una conoscenza totale del cinema ti aiuta. Noi ancora non ci riteniamo così bravi come registi da poter citare o copiare. Non siamo Tarantino.
Quindi il fatto che una scena di Favolacce mi sembri un omaggio a Hereditary - Le radici del male è un caso.
Sì.
A noi interessa cambiare, perché ci piace arrivare sul set con la paura: il motore che fa prendere le decisioni giuste.
Tanto cinema italiano di oggi, fraintendendo Gomorra di Garrone, è realistico: periferia, crimine, pedinamento. La terra dell’abbastanza dialoga con questo tipo di film, pur mettendolo in dubbio. Favolacce no. Nega il realismo dal principio: c’è un narratore inaffidabile, e fate sì che i bambini si sottraggano al mondo di degrado che li aspetta... C’è anche un messaggio per il cinema che vi sta intorno, in questo film?
Hai ragione: è impossibile capacitarsi di come Gomorra non sia considerato un fantasy, in cui c’è poco di realistico, e tanto di archetipico. Comunque no: non abbiamo fatto Favolacce con intenti bellici contro il cinema italiano. Però ci interessava che il film, sin dalla prima battuta, annunciasse il suo legame con l’immaginazione: in un quartiere come quello di Favolacce ci abbiamo vissuto, ma in film come Edward Mani di forbice. Dopo aver comprato il nostro film on demand, ci siamo accorti che è complicato inserirlo in un genere: grottesco? Horror? Ci sono momenti drammatici, cinici, caustici, forse anche comici. Non ci siamo ancorati al piccolo successo di La terra dell’abbastanza, non abbiamo ripetuto la formula, anche se ci è stato chiesto di insistere su quel neo o post-neorealismo. A noi interessa cambiare, perché ci piace arrivare sul set con la paura: il motore che fa prendere le decisioni giuste.
In questi giorni ho riletto il vostro libro di poesie, Mia madre è un’arma. Secondo me finisce dove comincia Favolacce. «Non mi credere quando sarai nato/e io ti dirò “Fai questo, fai quest’altro, non fare questo”./Credimi solo adesso». C’è tutto. Il bambino che non deve seguire i passi paterni. Ma che può ascoltare, credere, a questa confessione, a una storia che ancora non ha riscontro nella realtà. Ma che dice bene, meglio, della realtà.
Non riusciamo mai a dividere il cinema da poesia, fotografia, disegno. Una volta un critico ci disse, dopo aver letto Mia madre è un’arma: «Concentratevi sul cinema, non siate bulimici». Ma per noi è importante non impigrirci sul cinema, perché rischiamo di perdere contatto con tutto quel che ci permette di fare i film. Essere trasversali, curiosi. Siamo cresciuti in fretta, ma le nostre ferite hanno una voce bambina: avevamo tante cose da risolvere col nostro passato e i nostri primi due film e i due libri (quello di poesie e quello fotografico, Farmacia notturna) sono debitori di quell’età, che cerchiamo di rendere meno confusa e quindi meno dolorosa. Il prossimo film, un thriller, è il primo in cui ci concentreremo su un’età non infantile.
Favolacce, a differenza di La terra dell’abbastanza, mi ha dato l’impressione di essere un film in cui le immagini sono nate prima delle parole.
Cerchiamo di connetterci con le storie, di ascoltarle. La terra dell’abbastanza, essendo attaccato ai personaggi, non poteva che avere un linguaggio nervoso, fatto di macchina a mano, poco filtrato. Favolacce è un racconto evanescente e rarefatto: sapevamo che la riuscita sarebbe stata legata allo stile, e quindi alle immagini. Abbiamo fatto storyboard di tutto il film. Veniamo dal fumetto: abbiamo sempre disegnato, fin da bambini. Partecipammo all’Accademia Disney, ma lasciammo per il timore di essere sopraffatti. Un’immagine può essere bella, ma se non è motivata da un sentimento, è da buttare. Lo stile per noi non significa cercare la bella inquadratura, ma ascoltare la storia. Favolacce è stato montato in tre settimane e mezzo. Pochissimo. Questo perché il nostro era già il montato definitivo, c’era poca scelta.
Avete già risposto a una domanda che faccio spesso, da critico antipatico, per capire se un regista è bravo o no: «Cosa è un’immagine bella?». Le risposte sono rivelatorie, e voi avete superato la prova. Comunque, a livello di regia, trovo abbiate un gran talento nella direzione degli attori. Mi raccontate come avete lavorato qui, non coi grandi, ma con i bimbi?
Anche noi pensiamo che la cosa che ci riesce meglio sia dirigere gli attori. Li veneriamo. Ma non ci piace l’improvvisazione dell’attore. Vogliamo quella del personaggio. E questo accade solo verso la fine delle riprese. Non saremmo mai arrivati a questo risultato se ci fossimo affidati alla figura dell’acting coach. Tutti i registi che lavorano coi bambini lo usano, ma secondo noi è un filtro non necessario. Ogni giorno parlavamo con i bimbi delle scene che avrebbero dovuto fare, con il loro linguaggio, e quando spiegavamo loro le scene non le edulcoravamo: era un modo per appagare la loro perspicacia. I bambini sanno sempre cosa succede, non li freghi. E questi sono i risultati.
Il film è ambiguo: da un lato i bimbi fanno una scelta, come per sventare il pericolo di diventare come gli adulti. Eppure c’è una figura come quella del professore, che forse influisce su questa scelta. Da un lato l’autodeterminazione, dall’altro un’istigazione. Che valore ha questa duplicità?
Ci interessava l’ambiguità del professore, e Lino Musella ha capito benissimo come veicolarla. Ci piaceva l’ambiguità per cui, una volta che lo additano come colpevole, lui pretende la possibilità di essere colpevole. Non sappiamo se sia un personaggio positivo o negativo: potrebbe essere l’unico che ha capito i bambini, il loro dolore. Dovevamo muoverci tra il rischio della chiarezza e la reticenza, volevamo che le gesta dei personaggi fossero credibili, ma che conservassero la possibilità di interpretazione da parte del pubblico. La cosa bella del cinema è quando lo spettatore può diventare parte attiva del film.
IL TRAILER DI AMERICA LATINA
FILMOGRAFIA INNOCENTE
America Latina
Thriller - Italia, Francia 2021 - durata 90’
Regia: Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo
Con Elio Germano, Astrid Casali, Sara Ciocca, Maurizio Lastrico, Carlotta Gamba, Federica Pala
Al cinema: Uscita in Italia il 13/01/2022
in TV: 21/11/2024 - Sky Cinema Due - Ore 13.45
in streaming: su Apple TV Google Play Movies Amazon Video Rakuten TV Timvision
Favolacce
Drammatico - Italia 2020 - durata 98’
Regia: Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo
Con Elio Germano, Tommaso Di Cola, Giulietta Rebeggiani, Gabriel Montesi, Justin Korovkin, Barbara Ronchi
Al cinema: Uscita in Italia il 15/06/2020
in streaming: su Now TV Sky Go Apple TV Google Play Movies Amazon Video Rakuten TV Timvision Rai Play
La terra dell'abbastanza
Drammatico - Italia 2018 - durata 96’
Regia: Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo
Con Andrea Carpenzano, Matteo Olivetti, Milena Mancini, Max Tortora, Luca Zingaretti, Demetra Bellina
Al cinema: Uscita in Italia il 07/06/2018
in streaming: su Apple TV Google Play Movies Amazon Video Rakuten TV Rai Play Timvision
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