In Faya Dayi la pianta di qāt è ovunque, onnipresente e consumata da tutti. Ci viene mostrata nei dettagli tutta la sua filiera, dalla coltivazione al raccolto, dall’imballaggio all’ingrosso fino a quello al dettaglio. Il qāt (o khat, per usare una translitterazione dall’arabo un po’ meno fedele ma più facile) è una sostanza anfetaminica (come le foglie di coca masticate dalle popolazioni andine) ma anche fortemente psicotropa e causa di forte dipendenza. Cresce in altura in luoghi molto soleggiati e non soffre un terreno arido, quindi ha trovato la sua culla culturale soprattutto nello Yemen e nel Corno d’Africa.
Jessica Beshir, documentarista, sceneggiatrice e produttrice messicana/etiope all’esordio nel lungometraggio, ha raggiunto gli altipiani dell’Etiopia per raccontare le comunità che vivono attorno al qāt. Composte specialmente da ex coltivatori di caffè, che sono dovuti passare allo sfruttamento dell’arbusto (traduzione letterale dall’arabo) anche a causa della scarsità di piogge che impedisce l’ottimale crescita delle piante di caffè. I giovani parlano di fuga, delle tariffe vigenti per un viaggio in Egitto, dall’Etiopia, e da lì fino in Europa: al villaggio, quando si fa la spesa, bisogna scegliere se prendere l’acqua o il carbone, costano fra i 12 e i 15 birr e non ci sono abbastanza soldi; per un viaggio in Europa, i taglieggiatori che li organizzano chiedono 80.000 birr.
Gli uomini più grandi, molti anestetizzati dall’alternanza lavoro/qāt, tentano di convincere i ragazzi a restare perché «non si può morire nel deserto o in mare per provare a fuggire». Meglio non lasciare il paese. Meglio non partire e usare quei soldi per aprire un’attività qui. I giovani non sono molto convinti. «Ti lasci tutto alle spalle, ma poi all’improvviso ti ricordi del canto degli uccelli, la natura, la sensazione dell’aria pulita. I ricordi sono l’unica cosa che ti porti dietro».
La macchina da presa di Beshir resta costantemente stretta sul capitale umano del film. I campi larghi sono fondamentalmente assenti. La scelta è quella di mostrare la natura antropica, la qualità umana di quei luoghi e di quelle comunità. Lo stesso utilizzo del bianco e nero (seppur di qualità eccelsa e davvero raffinata) toglie colori e sfumature allo sfondo naturalistico: non c’è spazio per l’inquadratura da cartolina, per l’estetizzazione condiscendente delle bellezze naturali. «Tutti fanno il massimo per scappare. La loro carne è qui, ma la loro anima se n’è andata». Un ragazzo con la madre in Europa e il padre dipendente dal qāt. La diaspora del gruppo etnico degli Oromo. Una giovane donna che piange l’amato perduto.
«Tutti fanno il massimo per scappare. La loro carne è qui, ma la loro anima se n’è andata»
Faya Dayi rimane magistralmente sospeso tra l’osservazione antropologica e il ritratto poetico, chiudendosi con un finale fin troppo realistico, un tentativo di fuga dopo aver chiuso una finestra sul panorama dell’altopiano che nutre e consuma allo stesso tempo.
IL FILM
Faya Dayi
Documentario - Etiopia, USA 2021 - durata 120’
Titolo originale: Faya Dayi
Regia: Jessica Beshir
in streaming: su MUBI MUBI Amazon Channel Apple TV