Lo dico subito con più parole e più nettezza: Paolo Rossi è un comico che fa monologhi teatrali, non è uno stand-up comedian. Anche perché, con tutto il rispetto per noialtri, parlare di comicità stand-up riferendosi alla scena italiana di inizio/metà anni ‘90 sarebbe come parlare di suonare la colonna sonora di Super Mario con il theremin riferendosi ai passatempi di Giuseppe Verdi. Ok che, anche all’epoca (non di Verdi, ma di Paolo Rossi; non il calciatore, ma il comico), Lenny Bruce era già una leggenda abbastanza universale e trasversale – merito anche se non soprattutto di Bob Fosse e Dustin Hoffman che nel ‘75 portarono a Cannes Lenny –, George Carlin faceva ben parlare di sé da un po’ di tempo, il giovane turco Bill Hicks cominciava a indignare le anime pie e, qui da noi, il filologo Luttazzi cominciava a portare un po’ dello spirito del genere; ma nonostante tutto, il linguaggio della stand-up era ancora lontano dall’essere visto, compreso e adattato alle esigenze comiche di casa nostra. Eppure, i monologhi con cui Paolo Rossi, fra gli anni ‘90 e almeno metà del primo decennio dei 2000, ha riempito caterve di teatri e di slot di palinsesto su Tele+ sono la forma di intrattenimento più vicina allo stand-up che si sia vista in Italia per almeno vent’anni.
Paolo Rossi nasce goriziano (di Monfalcone), cresce ferrarese e si afferma professionalmente e artisticamente come milanese. E già questi metaforici timbri di passaporto da età comunale cominciano a raccontare della sua capacità di mettere insieme stimoli, strade e storie diverse per creare un linguaggio sincretico che, come da stereotipo, va oltre la semplice somma delle parti. Paolo Rossi nasce, come artista di teatro, quando Dario Fo lo scrittura per la sua rilettura dell’Histoire du Soldat di Stravinskij; l’incontro tra il commediografo e il guitto (scegliete voi chi è chi) è talmente azzeccato, a livello umano e artistico, che Rossi (nel 2010) omaggerà il maestro con uno spettacolo intitolato Il Mistero Buffo nella versione pop 2.0.
A metà anni ‘80 entra nel giro del Teatro dell’Elfo, laboratorio teatrale milanese che ha fatto tante belle cose; fra cui far incontrare Paolo Rossi e Gabriele Salvatores, che insieme (e con, tra gli altri, Claudio Bisio e Silvio Orlando) mettono in scena l’adattamento italiano di Comedians, dramma incentrato sul mondo della stand-up scritto dal drammaturgo inglese Trevor Griffiths. Salvatores ha nuovamente adattato lo stesso testo, stavolta per il cinema, anche nel 2021, con Ale&Franz, Natalino Balasso e Christian De Sica al posto di Rossi, Bisio e Orlando. Poi, con gli anni ‘90, Rossi sbarca in tv. Crea, insieme a Gino e Michele, il contenitore Su la testa!, grazie al quale debuttano, tra gli altri, personaggi di futuro culto come Aldo, Giovanni & Giacomo e Antonio Albanese.
Nel frattempo anche un po’ di cinema, certo, e il teatro d’esperimenti insieme a un regista come Giampiero Solari. La vera rivoluzione, però, arriva dopo la notorietà televisiva, che Rossi sfrutta come volano per una nuova esperienza teatrale da monologhista.
L’alto della drammaturgia surreale, del teatro sociale, del gramelot di Fo, della commedia dell’arte, di Molière, di Rabelais e di Shakespeare si fonde al “basso” del cabaret, della comicità istrionica, delle barzellette sui carabinieri, sui nani, sui foruncoli, sui nani foruncolosi (ma non sui foruncoli nani), sull’eiaculazione precoce e sulle donne frigide. «Charlie Parker ed Evaristo Beccalossi», come dice lo stesso autore descrivendo il suo spettacolo Recital; il geniale artista creatore del bebop e uno scostante fantasista mancino del centrocampo dell’Inter di inizi anni ‘80, insieme nello stesso calderone, trattati con la medesima dignità.
Nei primi monologhi di Paolo Rossi – quelli più vicini alla stand-up pura: Recital inizia con una Preghiera del comico (affinché le cose brutte del mondo non finiscano mai) che non avrebbe sfigurato nel repertorio di Hicks – ci sono già inserti musicali, momenti surreali e piccole deviazioni in ambito satirico, con chiari riferimenti alla cronaca politica dell’epoca. Ma c’è soprattutto un tipo di narrazione comica strutturata come uno stand-up moderno, con divisioni in sequenze collegate da rimandi, interazioni con il pubblico e momenti dedicati a un’improvvisazione non fine a se stessa, ma utile a far proseguire la parabola dello spettacolo. Con la definitiva maturazione artistica (potremmo considerare il nuovo millennio come spartiacque), i monologhi di Rossi si allontanano sempre di più dalla comicità stand-up, diventando testi quasi puramente satirici, con un senso di urgenza sociale che sfiora la predica moraleggiante, mantenendo abbastanza distacco ironico da non cadere nella seriosità della filippica. Il dialogo con il pubblico e la volontà di coinvolgerlo nella creazione in fieri dello spettacolo diventa sempre più preponderante e sistematicamente ricercato, con la bilancia che pende sempre di più dalla parte drammaturgica e canonicamente teatrale, abbandonando quegli elementi di stand-up esplorati (forse anche inconsapevolmente) negli anni precedenti. Però, per un lisergico periodo lì in mezzo agli anni ‘90, il pubblico italiano si è potuto godere un artista inedito, in grado di portare il nostro linguaggio comico verso orizzonti poco sperimentati.
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