Su Film Tv n° 30, in edicola il 26 luglio, troverete uno speciale intitolato La grande illusione. Una serie di storie personali, che raccontano la storia di come è evoluto il nostro modo di vedere (i film o le serie): dal cinema negli anni 50 alle notti di Fuori orario registrate in vhs, dalle sale parrocchiali a quelle porno, dai dvd allo streaming, dai parchi divertimento alla realtà virtuale. Lo speciale è ispirato al libro La grande illusione - Storie di uno spettatore di Roy Menarini (Mimesis, 168pp., €14), di cui vi proponiamo qui un capitolo. Perché? Perché vogliamo che anche voi lettori ci mandiate le vostre storie da spettatore: 1600 battute al massimo, da inviare al nostro direttore Giulio Sangiorgio: sangiorgio@filmtv.press.
Seconda stanza: 1982. Al cinema da ragazzo. L’ultimo squalo alla sala parrocchiale
Seconda stanza e primo film senza genitori. Potrebbe essere imbarazzante ammettere che il mio primo grande incontro con il cinema italiano è avvenuto grazie a un film di imitazione di Enzo G. Castellari, L’ultimo squalo (1981). Ma grazie allo sdoganamento degli ultimi decenni operato dalla critica cinefila amante dei “re della serie B” (e da Quentin Tarantino), oggi la scelta potrebbe anzi apparire opportunistica. Invece no. All’inizio degli anni Ottanta i generi erano generi, e basta. Il western all’italiana aveva aperto la strada da almeno quindici anni, i prodotti nazionali nati in scia ai successi hollywoodiani un’abitudine riconoscibile. Ma come sono finito a vedere questo horror avventuroso molto cruento in un cinema parrocchiale?
Il cineclub inavvertito
Il cinema Antoniano, nato nel 1953 grazie ai frati minori del Convento di S. Antonio di Bologna, è molto famoso in tutta Italia perché lì si tiene ogni anno Lo Zecchino d’Oro. Tra fine anni Settanta e anni Ottanta faceva anche (come oggi, del resto) programmazione cinematografica, concentrata soprattutto nel weekend. Si trattava di una sala molto grande, fredda e fatiscente, con sedie di legno durissime, cigolanti e scomode, e un bar all’ingresso pieno di dolciumi cariogeni come quelli di cui mi nutrivo compulsivamente durante la visione del film: le cosiddette coca-coline, ovvero caramelle gommose alla cola a forma di bottiglietta della celeberrima bevanda, vendute a peso in un sacchetto di carta e divorate a manciate dai ragazzini delle scuole medie che costituivano il pubblico principale della sala.
I film arrivavano all’Antoniano dopo un lunghissimo sfruttamento di prima e seconda visione, secondo un calendario pachidermico pre-piattaforme che somigliava decisamente più al mercato degli anni Cinquanta che a quello di oggi (e infatti questo film sbarcò al parrocchiale nel 1982, mesi e mesi dopo la sua uscita dell’aprile 1981). Ma soprattutto sembrava ben lontano dall’idea di controllo sulla programmazione da parte dei parroci, visto che si potevano vedere film di genere anche molto violenti, come questo. Oso dire che ho respirato una cinefilia anti-gerarchica fin dalle scuole medie anche grazie alla presenza di bizzarrie molto diverse tra di loro all’Antoniano, ben prima di formarmi alla scuola dei Cahiers o persino delle derive mac-mahoniste.
Le pellicole che arrivavano erano talmente imprevedibili che una volta, quando fu esposta la locandina di Cicciabomba (Lenzi, 1982) con Donatella Rettore, qualche mamma più superficiale pensò di leggervi Cicciolina e reagì scandalizzata telefonando subito alle altre madri per impedire che mandassero i figli. Ovviamente era un errore marchiano, ma il solo fatto che qualcuno potesse considerare anche solo come lontanamente possibile la presenza di un porno all’Antoniano faceva capire la stranezza cui eravamo abituati.
E così, tra imitazioni nostrane di Rambo (Thunder, De Angelis aka Ludman, 1983), spionistici con speranze di sub-divismo (Executor, Glickenhaus 1982, con il bellone Ken Wahl), stanchi film di guerra per anziani (I 4 dell’Oca selvaggia II, Hunt 1985), teen movie minori (Toccato!, Kanew 1985), vari titoli della cosiddetta bruceploitation (king fu movie con finti Bruce Lee, talvolta anche poco somiglianti), e tante benedette riedizioni di classici di Hitchcock e James Bond (oltre che il buon vecchio Jesus Christ Superstar, Jewison 1973, tornato in circolazione e giustamente visto al parrocchiale) mi sono fatto una cultura onnivora e piuttosto bizzarra. Non era il Brady, forse, ma per me valeva uguale.
Il sabato pomeriggio
Il giorno privilegiato era il sabato pomeriggio, per quella che era diventata un’abitudine post scolastica – anche per il costo molto contenuto del biglietto. Fantasticare sul film del sabato pomeriggio (rigorosamente in compagnia di soli compagni maschi, e rigorosamente nerd), aiutava a scacciare la sensazione soffocante che le poche ore del weekend scorressero troppo in fretta, e a isolare la domenica già insidiata dalle ansie precoci delle interrogazioni del lunedì.
Nel 1982, a undici anni, ebbi il permesso di andare per la prima volta in sala senza maggiorenni intorno. Del resto l’Antoniano distava un paio di minuti a piedi, e – sebbene poco più in là (Piazza Trento Trieste) fosse pieno di tossici – l’ambito parrocchiale dava qualche garanzia indipendentemente dalla programmazione irriverente. Si può facilmente immaginare l’emozione della prima volta. Dopo lunga trattativa con i genitori, eccomi a varcare con gli amici coetanei la soglia magica.
Non avevamo nemmeno visto Lo squalo di Steven Spielberg perché all’epoca eravamo troppo piccoli e non c’erano DVD o piattaforme su cui recuperarlo. Sapevamo che ci sarebbero stati spaventi e brividi acquatici ma non conoscevamo ancora lo shock rozzo che offre la serie B. Quello che oggi giustamente il Mereghetti sul Dizionario dei Film considera un plagio di poco interesse con scarsi mezzi (“il mostro meccanico è quasi immobile e l’insieme è prevedibile”) fu per noi traumatizzante.
Lo stesso Mereghetti, nella breve scheda, ne ricorda la sequenza più terribile, che potemmo intitolare: squalo contro elicottero. Per cercare di catturare o eliminare il mostro, infatti, viene mandato un elicottero che vola vicino all’acqua. Il passeggero cade in acqua, proprio vicino allo squalo che non vede l’ora di mangiarselo. Il pilota fa varie manovre per recuperare l’uomo e quasi ce la fa, ma egli ricade in mare. Alla fine, la vittima designata sembra salva, poiché si attacca alla base del velivolo e si fa estrarre dall’acqua. Quando è quasi a mezz’aria, però, lo squalo compie un balzo prodigioso e lo divora per metà, lasciandogli le gambe tranciate a spruzzare sangue (c’è anche un dettaglio degli arti mozzati, peraltro male inquadrati).
Castellari è sempre stato un onesto professionista, promosso ad autore dai critici e cineasti di cui sopra, e anche rivisto oggi L’ultimo squalo non sfigura rispetto ai tanti spin off non ufficiali della saga iniziata da Spielberg. La scena in questione è facilmente reperibile su YouTube, in vari estratti, a dimostrazione che insieme al sottoscritto a ricordare con forza quel momento sono stati in tanti.
Visibilità del trucco
Penso che il realismo del trucco – almeno per un ragazzo appassionato di film in sala ma ancora poco smaliziato – abbia costituito un importante elemento di quella “immagine del disastro” che tanto mi impressionò. Ovviamente nessuno di noi undicenni pensò che l’uomo fosse stato davvero ucciso davanti alla camera (sebbene ci fosse un altro cinema italiano exploitation che avrebbe in altri momenti suscitato il dubbio, e mi riferisco ai mondo movies). Però era sufficiente per pensare che, se davvero accadesse a una persona di essere mangiata da uno squalo mentre si trova sospesa in aria, gli arti morsicati e i dettagli anatomici sarebbero esattamente quelli.
Attraverso un film scelto sulla base della programmazione e non dei gusti personali (l’unico gusto era: andare all’Antoniano qualsiasi cosa proiettassero) imparavo alcune cose con cui la teoria e la storiografia mi avrebbero accompagnato come studioso in anni di molto successivi: la teoria del trucco di Christian Metz, i tabù cinematografici analizzati da Enzo Ungari, la storia artigianale del cinema italiano esaltata dalla cinefilia radicale e studiata dall’accademia, il modello dell’immaginario avventuroso statunitense e le sua (tarda) imitazione nostrana.
In fondo, film come L’ultimo squalo hanno lo stesso rapporto parassitario e al tempo stesso irriverente e rivoluzionario con la produzione americana che già si era mostrato dagli anni Sessanta in poi (peplum, western, horror, fantascienza, thriller urbano, spionistico e così via). E il fatto che, anche non volendo, oggi il sottoscritto ricordi molto più facilmente le sequenze del film di Castellari che quelle di Spielberg ha evidentemente a che fare sia con la primogenitura dello shock sia con la forza brutale della visibilità disturbante del trucco voluto da Castellari. Se paragonato all’estremismo grandguignolesco di Piranha 3D (Alexandre Aja, 2010), per citare un esempio contemporaneo, L’ultimo squalo oggi fa sorridere ma era più che sufficiente per generare la fitta rete di racconti sempre più esagerati che io e i miei amici avremmo fatto il lunedì mattina successivo ai compagni di classe.
Già all’epoca pensai a quanto potesse essere divertente e macabro occuparsi di trucchi prostetici per film splatter. Di recente gli appassionati di horror hanno discusso parecchio di un tipo di gore più artistico, ricercato, presente nel film Midsommar (Ari Aster, 2019) dove fa molta impressione il suicidio di un anziano della mostruosa comunità in cui finiscono i protagonisti. Il tipo, peraltro interpretato da Björn Andrésen (Tadzio di Morte a Venezia, che qui sembra voler appositamente chiudere la carriera rovinandosi il volto che faceva innamorare Gustav von Aschenbach), si lancia a corpo morto da una rupe e il regista ci mostra lo scempio del volto (cade di faccia, per non farci mancare niente), cui segue lo schiacciamento della testa operato con un enorme martello dalla tribù, che in questo modo esegue un rito evidentemente abituale. Ebbene, nel raccapriccio, il fan che si formò da piccolo con le amputazioni di Castellari non può che abbandonare momentaneamente l’immersione nel film e ammirare i trucchi, con distanza da scienziato.
Post scriptum: Per gli appassionati, il make-up artist di turno è l’ottimo Iván Pohárnok.
Letture consigliate:
Giusti Marco, Stracult. Dizionario dei film italiani, Sperling & Kupfer, Milano 1999
Lupi Gordiano, Zanello Fabio, Il cittadino si ribella: il cinema di Enzo G. Castellari, Mondo Ignoto, Roma 2006
Minuz Andrea (a cura di), Jaws Experience (1975-2015), numero speciale di “Cinergie – Il cinema e le altre arti”, n. 7, 2015
Bourlot Alberto, Fanchi Mariagrazia (a cura di), I nuovi cinema paradiso. Cultura, territori e sostenibilità delle Sale della comunità, Vita & Pensiero, Milano 2017
LeMay John, Jaws Unmade: The Lost Sequels, Prequels, Remakes, and Rip-Offs, Independent Publishing, 2020
* Mi riferisco alla spassosa ricostruzione della fauna tribale e cinefiliaca della sala parigina raccontata in J. Thorens, Il Brady, L’Orma editore, Roma 2017.
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