La caratteristica di Michel Hazanavicius è quella di volare fuori dai radar. Cineasta cinefilo onnivoro, talvolta frainteso da cinefili simili a lui che però non riescono a stare dietro ai suoi bruschi cambi di tono e progetto, Hazanavicius va considerato un regista consapevole, teorico, postmoderno.
La sua fama è inevitabilmente legata a The Artist, che andava a pescare nell’immaginario americano del musical ma con un sapore europeo e valorizzando quelli che sarebbero diventati due divi del cinema francese e non solo, Berénice Béjo e Jean Dujardin.
Visto che non era un esordio (pur avendone la freschezza), tutti si chiesero da dove proveniva quel talento così dissimile dai rovelli “nouvelle vague” solitamente esportati da Parigi. E quante labbra si arricciarono, scoprendo che Hazanavicius aveva diretto due parodie del cinema spionistico alla James Bond.
Eppure i due Agente Speciale 117 (Missione Cairo e Missione Rio) sono operazioni simili a The Artist. Il calco stilistico, la reinvenzione comica, il secondo grado appaiono i medesimi, pescando da una tradizione transalpina che va da Louis De Funès a Pierre Richard fino a Dany Boom. Mescolando satira del colonialismo francese e operazione-nostalgia (con dottissimi riferimenti ai film anni ’60 di Fantomas e dello spionistico tecno-comico di André Hunebelle), il regista fa molto di più che solleticare il ventre molle del pubblico pop francofono. Forse è proprio questa vocazione “grand public” (con incassi stellari) e l’aria simile a una farsa a costare la reputazione presso i rigorosi della critica.
Hazanavicius è un divoratore di fonti cinematografiche: The Search ha uno sfondo che non esiteremmo a definire à la King Vidor se non avesse un modello di riferimento ben preciso: Odissea tragica di Zinnemann. In Gli infedeli (a più mani) rifonda il film a episodi con una grottesca malinconia di fondo e citazioni che spaziano da Monicelli a Risi, arrivando a Luciano Salce e a La voglia matta.
Ma il film-chiave per la comprensione del cinema e della cinefilia hazanaviciusiana è Il mio Godard, che ha costituito una specie di scandalo per i cinefili godardiani. Andando alla radice dell’ironia anarcoide alla base della Nouvelle Vague, quella del cineasta francese non è affatto una reductio maliziosa e crudele ai danni di un gigante, bensì il tentativo di sorridere di un momento deliziosamente liberatorio della storia del cinema (facendolo cioè esattamente con quell’atteggiamento che non prendeva nulla sul serio). Il mio Godard (titolo italiano a suo modo geniale) è la versione slapstick della biografia culturale di una nazione, dove il singolo – Godard – conta solamente per il suo arco di trasformazione. Da sabotatore beffardo a venerato maestro. Qui si torna ai sabotaggi: Godard è quasi l’OSS117 della cultura alta.
Dopo una discutibile parentesi fiabesca (Il principe dimenticato), un nuovo film comico sugli zombi (Coupez!) e persino un film d’animazione in arrivo, possiamo serenamente dire che Hazanavicius non si fa mai trovare dove si crede che sarà.
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