Siccome vi vedo lì, tutti soddisfatti per non aver mai studiato scienze della comunicazione – e vi rinnovo i complimenti per l’ottima scelta – ci tenevo a ricordare una cosa semplice, ma scivolosa: l’emittente della comunicazione conta tanto quanto il messaggio veicolato dalla stessa. Questo per dire che lo so: negli ultimi 8 anni avete letto o vi siete sentiti dire perlomeno 76 volte che quella serie lì è assolutamente e senza alcun dubbio la nuova True Detective. E ogni. Singola. Volta. Non è stato neanche lontanamente vero. Però siate sinceri, almeno 75 di quelle 76 volte a dircelo è stata gente costretta, per contratto, a tentare di trovare il modo più semplice per cercare di venderci (o anche solo comunicarci) un thriller scarso che si prende un sacco sul serio e fa tutte quelle cose misteriose che faceva la prima stagione di True Detective.
Detto questo, possiamo assicurarvi che non siamo qui per vendere Dark Winds. Anzi. Non si sa neanche quando e se verrà distribuita in Italia, e il fatto che sia una produzione AMC depone abbastanza a suo favore per quanto riguarda la qualità, certo, ma molto meno quando si parla di certezze per la distribuzione. Qualche esempio di serie originali AMC con relativa, acrobatica distribuzione italiana? Pronti, ce ne sono quanti volete. Breaking Bad e Better Call Saul li abbiamo visti su Netflix, anche se la prima aveva debuttato su AXN. Mad Men l’abbiamo vista su Cult. E su FX. E su Rai 4 (come Halt and Catch Fire). E su TIMvision. The Walking Dead è stata per un sacco di tempo su Fox e adesso sverna su Disney+. Mentre Dispatches from Elsewhere se l’è presa PrimeVideo. Insomma, un gran casino. Eppure si vuole insistere – adesso con la certezza matematica dell’assenza di ulteriori motivi – su questa scommessa pericolosa: Dark Winds è il nuovo True Detective. Magari meglio.
Già la genesi di Dark Winds è abbastanza mitologica. La serie, appena riconfermata per una seconda stagione, è stata realizzata anche per intercessione di una strana coppia di produttori esecutivi, Robert Redford e George R. R. Martin. Il Far West hipster del Sundance – Park City, città che ospita il festival, è comunque in pieno territorio di frontiera sulle montagne dello Utah – che incontra Game of Thrones. Di più. Lo showrunner della serie è una vecchia volpe degli sceneggiatori televisivi, quel Graham Roland che ha creato Jack Ryan, ha scritto svariati episodi di Prison Break, Fringe, Almost Human, e ha avuto l’incredibile coraggio di apporre la propria firma sulla sceneggiatura della puntata finale di Lost. In pratica un eroe dei nostri tempi.
Ancora di più, per quanto riguarda la genesi mitologica di Dark Winds, e poi basta: è tratta da una serie di romanzi polizieschi (18 titoli pubblicati negli USA fra il 1970 e il 2006) con protagonisti due agenti della Navajo Nation Police, forza d’ordine che pattuglia la Riserva Navajo (la più grande del paese) disegnata a cavallo fra Arizona, New Mexico e Utah; l’autore della serie è il compianto Tony Hillerman, mezzo tedesco e mezzo inglese, appassionato studioso e divulgatore di cultura nativa americana, ma anche a un passo dal vedere apposta la propria foto sull’enciclopedia al fianco della definizione di “appropriazione culturale”.
I protagonisti della serie, ambientata alla fine degli anni ‘70, sono due detective della forza di polizia interna alla Riserva, vera e propria nazione (dimenticata) nella nazione in cui valgono alcune regole diverse rispetto al resto del paese; si tratta del veterano Joe Leaphorn, che da quando ha terminato l’università non ha mai lasciato la Nazione Navajo, e del nuovo arrivato Jim Chee, fresco di college e portatore di un innocuo segreto di Pulcinella che verrà presto svelato dall’esperto collega.
L’indagine principale di Dark Winds consiste nell’omicidio di un uomo che era andato a farsi visitare da una guaritrice cieca, e della nipote 19enne di quest’ultima, la cui autopsia recita “morta di paura”. Allo stesso tempo, l’FBI varca i confini della Riserva con il sospetto che lì si nascondano gli autori di una spettacolare rapina a un portavalori, fuggiti con un elicottero nei meandri del deserto circostante. Le prime due puntate fanno davvero un lavoro eccellente nello stendere le premesse e nel delineare i rapporti fra i vari personaggi, così come alcune dinamiche interne alla Nazione Navajo. Il tutto con economia di parole (che è un concetto diverso dal mutismo), e con un certo gusto per un ritmo riflessivo in cui ogni pausa è funzionale alla narrazione o alla costruzione di un carattere. Se i successivi quattro episodi dovessero non sbracare clamorosamente, avremmo davvero fra le mani quel gioiellino di thriller psicologico che, per l’appunto, mancava dai tempi della prima stagione di True Detective.
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