Un suono, all’improvviso. Una piccola esplosione ovattata. Da dove viene? Dalla realtà o dalla testa di Jessica, la protagonista interpretata da Tilda Swinton? Come andando a tentoni in uno spazio che le è estraneo (in effetti siamo in Colombia, e lei è un’expat), Jessica insegue la risposta per tutto il film. Ma mentre Jessica cerca l’origine di quel suono, prima a Medellín e poi nelle solite foreste care ad Apichatpong Weerasethakul, si fa strada la consapevolezza, dentro di noi e dentro di lei, che esiste un altro modo di sentire e percepire il mondo.
Un modo diverso da quello dominante lungo tutta la modernità occidentale, e riprodotto, in pittura, dalla prospettiva rinascimentale, nella quale il campo visivo si organizza intorno agli occhi del vedente. La supremazia del visivo lascia ora spazio a quella dell’auditivo, il vedere cede il posto al sentire. Non siamo più davanti al mondo, padroni di esso grazie al cono prospettico albertiano che amministra razionalmente il visibile, ma dentro al mondo, avvolti da esso a 360°. L’apparato sensoriale ed esperienziale dell’uomo starebbe insomma mutando in qualcosa di nuovo che, tuttavia, è anche un ritorno al primitivo: tramontato qualunque antropocentrismo, persino i confini reciproci tra animale, vegetale e minerale starebbero sbiadendo.
Tra uno studio di registrazione, scavi archeologici e un saggio eremita che ci spiega come tutti gli esseri viventi siano depositi di memorie biologiche automaticamente interconnessi senza alcun bisogno di internet, il regista thailandese ci accompagna, facendo sfumare le differenze fra natura e artificio, in un viaggio in questa nuova sensorialità, all’avanguardia della quale sembrerebbe implicitamente porsi il cosiddetto Global South. Lo fa non con una storia, ma sfogliando una serie di inquadrature fisse, sospese nel punto archimedico in cui le linee squadrate del design sfumano nell’organico, e talmente sbilanciate verso la dimensione architettonica che il tempo e il movimento sembrano essere nulla più che funzioni occasionali e residuali dello spazio.
Quasi ognuna di esse è un esercizio di decentramento del punto di fuga prospettico, quasi mai frontale ma aperto su profondità eccentriche, sopra, sotto, ai margini, agli angoli: l’occhio non domina più lo spazio, ma è costretto a esplorarne palmo a palmo, lungamente, le apparentemente semplici, ma in realtà ricchissime, stratificazioni grafiche. Di nuovo, in definitiva, non c’è molto. Chi ha dimestichezza con la koinè dell’arte contemporanea ha anche da decenni famigliarità con questa mutazione annunciata e con le sue forme. Di essa, Weerasethakul ha firmato un packaging di lusso, riconoscibile agevolmente e a colpo sicuro in qualsiasi anfratto del mercato globale “arty”. Ma al netto della programmaticità dell’assunto, di cui è senz’altro complice quella vecchia volpe del co-produttore Jia Zhangke, l’esperienza spettatoriale offertaci da Memoria è di quelle che nessun museo sarebbe in grado di restituire.
Il film
Memoria
Drammatico - Colombia 2021 - durata 136’
Titolo originale: Memoria
Regia: Apichatpong Weerasethakul
Con Tilda Swinton, Jeanne Balibar, Daniel Gimenez Cacho, Juan Pablo Urrego, Elkin Diaz
Al cinema: Uscita in Italia il 16/06/2022
in streaming: su MUBI MUBI Amazon Channel Rai Play