Quando Guida Gusmão esce nella notte di Rio de Janeiro, nel 1950, per incontrare un amante, sua sorella minore Eurídice non sa che quella sarà l’ultima volta che la vedrà. E che da quel momento in poi la sua vita diventerà invisibile, come recita il titolo del film di Karim Aïnouz vincitore della sezione Un certain regard al Festival di Cannes 2019 e tratto dal romanzo di Martha Batalha Eurídice Gusmão che sognava la rivoluzione (Feltrinelli, 2016): un «mélo tropicale» di cui abbiamo parlato con il regista brasiliano, già collaboratore di Todd Haynes, Ira Sachs e Walter Salles.
Hai scelto di adattare il bestseller di Batalha in modo molto libero, cambiando drasticamente elementi cardine della trama. Come mai?
Quello che più mi premeva raccontare era la storia di queste donne: mia madre è morta nel 2015 e anche lei, come Guida nel film, era una madre single, mi ha cresciuto da sola, e a sua volta era stata cresciuta da mia nonna soltanto. La lettura del romanzo mi ha portato a chiedermi quante cose non sapessi di queste donne, di quel che avevano passato, di cosa significasse negli anni ‘50 o ‘60, in Brasile, essere donne sole, lavorare ed educare un figlio. Si trattava di un’epoca in cui era impensabile divorziare, era illegale abortire, e non c’era ancora stata la rivoluzione sessuale. Volevo raccontare questa generazione di donne invisibili.
Così hai scelto di costruire un mélo sulla separazione non tra due amanti, ma tra due sorelle: qualcosa di ancora più lacerante perché, se l’amore può finire, il legame tra sorelle è per la vita.
Eurídice e Guida non vorrebbero separarsi; infatti, a causare la distanza fra le due sono le questioni culturali che muovono le scelte della loro famiglia: la tradizione, l’onore, il decoro. E il loro dolore nasce dal pensiero di cosa avrebbero potuto fare, di chi avrebbero potuto essere se solo fossero rimaste unite.
Un’altra differenza rispetto al romanzo è il trattamento dei personaggi maschili: pur determinanti, restano a margine, non vengono approfonditi i motivi che li portano a comportarsi, talvolta, in modo crudele.
Ho voluto focalizzarmi sui personaggi femminili, è una scelta precisa la mia, di dare a loro la ribalta. Ma non ho mai voluto trasformare gli uomini della storia in villain: sono frutto della cultura conservatrice in cui sono cresciuti, sono uomini del loro tempo e sono tenuti a comportarsi in un certo modo, non sono cattivi. Ho preferito affidarmi alle sottigliezze delle interpretazioni dei miei attori, piuttosto che giustificare il comportamento dei personaggi mostrandone il vissuto.
La musica è un elemento cruciale del film: il sogno di Eurídice è diventare una pianista.
Nel romanzo i talenti di Eurídice sono tanti, tutto quel che fa lo fa bene. Preferivo però concentrarmi su un solo dono, e ho scelto il pianoforte perché per me invisibile significa silenziosa: non può essere vista anche perché non è ascoltata, non può dire ciò che pensa ad alta voce. Così, il piano diventa la sua voce; è uno strumento molto fisico, molto diretto, che coinvolge tutto il corpo e va dritto al cuore. In questo film la musica era talmente importante per me che, a un certo punto, ho avuto il timore di averne messa troppa! Ma era un modo per far parlare i personaggi.
La vicenda di Guida ed Eurídice si inserisce nella tradizione sudamericana del realismo magico, ma il tuo film mette in scena la società brasiliana dell’epoca con crudezza e sensualità: le scene di sesso sono particolarmente realistiche, tutt’altro che estetizzanti.
Personalmente non sono un grande fan del realismo magico, non mi ritrovo in quel genere; volevo che il mio film avesse una qualità quasi onirica, ma senza cadere nel metafisico. Quello in cui si svolge non è esattamente il mondo reale, ma ciò che i personaggi fanno lo è, così come è reale ciò che accade ai corpi di Eurídice e Guida. Il piacere femminile, il dolore... C’è verità in questo, quello che una donna sente è reale. Il mélo deve essere eccesso di colore e di emozione, è il genere della “troppezza”; spesso è rimasto ancorato a una messa in scena pudica, dove non compaiono carne o fluidi corporei, mentre io non volevo essere puritano.
Il tuo film è ambientato a metà Novecento, ma dice qualcosa anche del Brasile di oggi?
Io credo che questo film potesse essere fatto solo in Brasile, perché noi brasiliani siamo “misti”, siamo creoli, sappiamo improvvisare. La vita invisibile è un mélo frastornato, perché tale è la nostra nazione, ed è bello così. Volevo che fosse soprattutto il ritratto di quella generazione, ma il Brasile è a tutt’oggi uno dei paesi al mondo col maggior numero di crimini contro le donne, quindi credo che il mio film sia anche un modo di guardare al passato per gettare luce sul presente, e per confrontarsi con quello che sta accadendo oggi alla nostra nazione.
La tua filmografia è molto variegata, sei passato dal dramma LGBT Praia do futuro al documentario sui rifugiati a Tempelhof, Central Airport THF. Eppure mi pare che qualcosa leghi tutte le tue opere, compresa quest’ultima: il concetto di resilienza.
È una bella definizione, in effetti, anche se per me si tratta non solo di resistenza, ma di gioia. Mi piace raccontare di chi deve reinventare se stesso, ma lo fa con dignità, non solo per sopravvivere, combattendo per essere rispettato.
Il film
La vita invisibile di Euridice Gusmão
Drammatico - Brasile 2019 - durata 145’
Titolo originale: A Vida Invisível de Euridice Gusmão
Regia: Karim Ainouz
Con Carol Duarte, Júlia Stockler, Gregório Duvivier, Bárbara Santos, Flávia Gusmão, Maria Manoella
Al cinema: Uscita in Italia il 12/09/2019
in streaming: su Amazon Prime Video Apple TV Google Play Movies Amazon Video Rakuten TV Timvision
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