«Good evening ladies and gentlemen.
Please welcome to the stage a man who doesn’t really need to do this»
Ricky Gervais
Con un po’ di fantasia lo si può intuire anche dal titolo: niente clickbait, l’idea è quella di parlare dell’ultimo speciale Netflix di Rick Gervais SuperNature – che tanto sta facendo discutere, soprattutto negli Stati Uniti – senza cavalcare le polemiche, cercando di estrarne il senso in quanto spettacolo comico – non piattaforma politica, non pamphlet, non omelia, non lectio magistralis: spettacolo comico – e magari mettendosi in mezzo a queste due macro-categorie in costante litigio (quelli che si offendono e quelli che offendono) e fra le quali non sembra esserci possibilità di dialogo. Una parte ragiona per ideologie, considera come attacco sistemico qualsiasi cosa devii dalla propria posizione, a volte è intransigente fino al fanatismo; l’altra accetta e incita la provocazione di idee, si nutre cinicamente della polemica come carburante per ulteriori provocazioni, e non rinuncerebbe al privilegio di poter dire quello che vuole nemmeno se gli venisse chiesto gentilmente, figurati quando il promemoria gli arriva in formato violento.
«Invocare la cancellazione di qualcuno oggi, ti mette nella posizione di essere cancellato fra dieci anni per qualcosa che hai detto adesso: non sai quello che la folla dominante potrà ritenere offensivo fra dieci anni. Oggi la cosa più offensiva che puoi dire è che le donne non hanno un pene, una frase che dieci anni fa non avevi la minima idea che potesse essere offensiva per qualcuno». Il bit (se fosse un film la chiameremmo sequenza) di cinque minuti con cui Gervais apre SuperNature parla (anche) di trans, ma il suo vero bersaglio sta nel virgolettato qui sopra.
Eppure molte persone si sono sentite offese e si sono indignate per le battute sulle persone transgender scritte dal comico inglese, accusandolo di colpire dall’alto al basso e con intenti transfobici una minoranza che non vuole più accettare questo tipo di trattamento. Gervais risponde che il suo bersaglio non sono le persone trans, bensì le idiosincrasie dell’attivismo. Ed è un peccato che lo debba esplicitare. Succede perché la gente, come spesso ha fatto notare lo stesso Gervais, preferisce indignarsi (è più semplice e più veloce, concordo anch’io) piuttosto che riconoscere la struttura di una battuta; piuttosto che fermarsi a riflettere – dal momento che certe posizioni ideologiche di pregiudizio ti fanno fermare al senso letterale della battuta – e a cercare di individuare il vero bersaglio, che è diverso dal soggetto.
Gervais scherza sui transessuali e sulle donne che temono di essere stuprate nei bagni pubblici se li frequentassero insieme alle donne transgender, finendo a giocare sulla confusione di pronomi che affligge le TERF quando parlano del loro timore di essere violentate da una donna trans. Questa è la punchline della battuta, il colpo finale. Il cuore della stessa sta nel set-up, nella preparazione, in cui Gervais tocca un argomento più interessante, quello dal cambio di paradigma sociale – negli ultimi anni il concetto condiviso di chi appartiene agli insiemi definiti dalle parole “donna” e “uomo” si è radicalmente evoluto – e degli indignati che non accettano si faccia ironia sull’argomento, scambiandola per bullismo. Gervais non prende per il culo i transessuali (o l’essere una persona transessuale); prende per il culo il fatto che il sentimento personale (ovvero: l’offesa) oggi viene elevato a concetto universale: io sento “questo” (in reazione a quello che dici tu), e “questo” (la mia realtà soggettiva) diventa una realtà oggettiva con cui anche tu devi avere a che fare.
«Quella era ironia. Ce ne sarà un po’ durante lo spettacolo, vediamo se vi riesce di individuarla. L’ironia è quello che succede quando, per ottenere un effetto comico, dico qualcosa a cui non credo veramente e voi, in quanto pubblico, ridete per un qualcosa che è sbagliato perché dentro di voi siete consapevoli di quello che è giusto». Le persone che in questi giorni si sono arrabbiate con Gervais, hanno anche puntualizzato una cosa di per sé non particolarmente sbagliata: se devi spiegare una battuta o se sei costretto a ricordare al tuo pubblico come funziona l’ironia, probabilmente stai facendo qualcosa di sbagliato. A questo concetto manca però una sfumatura: Gervais non giustifica la propria comicità in un contesto “serio”, bensì integra queste parentesi meta-testuali nel testo del suo spettacolo. Non sta difendendo o spiegando le proprie battute davanti a una giuria perché si sente in colpa o si è pentito o crede di non essere stato compreso, ma sta eseguendo la sua routine e tutto quello che dice è stato architettato per avere un effetto comico.
Un’altra caratteristica di SuperNature, e in generale della scrittura di Gervais, è il modo con cui il comico gioca con alcuni topoi triti e stantii (le donne non fanno ridere, le lesbiche sono più accettabili dei gay perché gli uomini si eccitano a immaginarle), brandendoli come un vero troll farebbe con il suo randello: li agita davanti agli occhi del pubblico senza colpirlo, solo per triggerarlo (costringerlo a reagire male); ma in realtà sta portando la battuta da tutt’altra parte. Gervais ha questa caratteristica come perfomer e, azzardiamoci a dire, come essere umano: ha la consapevolezza razionale di essere più intelligente e più bravo – non migliore, solo più intelligente e più bravo – del 99% dell’umanità. E costruisce la sua comicità di conseguenza, manipolando il suo pubblico con finte, inserti di prosopopea e riuscendo a infrangere la quarta parete in un tipo di spettacolo in cui la quarta parete in teoria non esiste. Come al solito, poi, Gervais si diverte come un bambino a essere il più disgustoso possibile, nel senso adolescenziale del termine: crea comicità dalla soddisfazione con cui racconta aneddoti (innocuamente) repellenti per cercare di mettere in difficoltà il senso di pudicizia del pubblico.
Di SuperNature se ne sta parlando tanto, fin troppo. E si merita solo alcune di quelle parole, non tutto l’oceano di inchiostro che è stato versato. Non tanto per le sterili polemiche relative a una minima parte dei contenuti – il diritto a indignarsi esiste, anche se sarebbe più bello rimanesse una faccenda quasi sempre personale. SuperNature si merita il giusto numero di parole perché è uno speciale in cui Gervais si ripete fin troppo. Non tanto specificatamente nei contenuti, non stiamo parlando di auto-plagio; quanto nella struttura stessa dello spettacolo. Ripete la “finta” lezione sulla comicità con parole nuove e in un contesto diverso, ribadisce il segmento del disgusto gratuito portando altri esempi, e c’è il solito momento in cui scherza su quanto è ricco, su quanto è ateo, su quello che le persone gli scrivono su Twitter. Insomma, il senso di déjà vu è alto, soprattutto ricordando il suo precedente speciale Humanity. La sensazione è che Gervais stia esaurendo la sua vena stand-up – un genere per cui è necessario un gran lavoro di cesellamento e di continua rinnovazione della routine – e che sarà costretto a fare i conti con questa carenza di ispirazione finché il contratto di esclusiva con Netflix non sarà concluso. Nel frattempo, povero, potrà tenersi impegnato contando i soldi. E le polemiche.
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