Justice Matters Most

STAGIONE 1

L’incipit di Better Call Saul, in bianco e nero, è un colpo al cuore: Saul Goodman, un tempo sodale criminale di Walter White, vende dolciumi a Omaha, Nebraska, proprio come da lui previsto nel penultimo episodio di Breaking Bad.

Non era facile creare lo spinoff di una delle serie più osannate di sempre e farne un prodotto rispettoso di quella mitologia ma al tempo stesso autonomo e originale, eppure eccolo: Better Call Saul - che, dopo il flashforward iniziale, si svolge nel 2002, circa cinque anni prima dell’incontro fra Saul e Heisenberg - ha un’identità propria e squillante e mette al centro della narrazione un personaggio secondario della serie madre (regalando al grande caratterista Bob Odenkirk un meritato ruolo da protagonista) per raccontarne le origini.

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L’avvocato d’ufficio Jimmy McGill (vero nome di Goodman), uomo mediocre e frustrato quanto lo era Mr. White, percorre una strada opposta e speculare: dal passato di piccola criminalità tenta di affrancarsi, per fare qualcosa di buono della sua vita, per essere qualcuno.

Commedia pervasa di ineffabile tragicità, innervata di riferimenti a Breaking Bad (dai dialoghi alla toponomastica) mai invadenti ma sufficienti a fare la gioia dei fan maniacali, la serie si muove, negli scenari di una Albuquerque stilizzata come un fumetto, sulla medesima linea sottile fra morale e immorale con cui Gilligan ama interrogare lo spettatore.

STAGIONE 2

Chi scrive considera Breaking Bad il miglior prodotto seriale degli ultimi dieci anni. Per una serie nata come costola di esso, affrancarsi dalla sua ombra è un risultato straordinario, e la seconda annata dello spinoff dedicato alle origini dell’avvocato Jimmy McGill, in arte (non ancora) Saul Goodman, supera la prima stagione per solidità e raffinatezza di scrittura, confermando la capacità di Gilligan di cesellare personaggi complessi, definiti dalle loro azioni e relazioni.

Sappiamo già, per alcuni di loro, cosa diventeranno, eppure il come non potrebbe essere più appassionante e sorprendente. La rocciosa etica mercenaria di Mike, scagnozzo col cuore di samurai, disperatamente attento a far giustizia senza sangue; l’ambizione e l’insofferenza alle regole di Jimmy, che indossa il suo ruolo di clown tragico per arrancare, paradossalmente, verso una dimensione seria; sono le due anime di uno show che si pone come origin story di uomini destinati al fallimento.

E se ogni ingresso di volti noti dalla serie madre (qui è il turno del malefico Hector Salamanca) è gestito con sobrietà, senza richiedere un ripasso di sei stagioni di Breaking Bad, è nella cura dei caratteri secondari che la serie si fa davvero grande: l’antagonista Chuck, fratello coltello che inibisce la carriera di Jimmy, e la meravigliosa Kim, amante/socia /complice, personaggio femminile fuori da ogni cliché, come in tv se ne vedono pochissimi.

STAGIONE 3

Una delle sequenze più tese e dolenti della terza, superlativa stagione di Better Call Saul mette in scena nient’altro che un uomo nell’atto di scollare nastro adesivo da una parete. Un gesto banale che si fa carico di significati: quello scotch sul muro è la fondazione di un futuro da avvocato per Jimmy McGill; quel gesto nervoso il cascame della faida col fratello Chuck, incapace di accettare la sua affermazione professionale; nello spazio fra pollice e parete si raggrumano le tensioni raccolte nelle precedenti annate.

È questo a fare dello spinoff (e prequel) di Breaking Bad una serie maiuscola: la capacità di imprimere senso in ogni dettaglio, di narrare con tutti i mezzi espressivi a disposizione, mai rifuggendo, ma anzi perseguendo, la complessità. Si prendano i primi due episodi, diretti da Vince Gilligan: saldamente imbullonati su una regia fluida e tesissima, rinunciano al dialogo per lunghi stralci (nella seconda puntata il rapporto fra scene parlate e scene mute è del 50-50) e costruiscono una minuziosa rete di informazioni che richiedono l’attenzione totale dello spettatore.

La sottotrama legata al granitico Mike Ehrmantraut, in particolare, è quasi una narrazione a sé stante (pochissimi i contatti fra Mike e Jimmy in questa annata), un noir immerso nella polvere delle strade di Albuquerque, tra inseguimenti rarefatti e confronti laconici. Ma dove la terza stagione si supera è nel rapporto fra ambienti e personaggi, mai così “parlante”: la malattia di Chuck (un’intolleranza all’elettricità che, oltre che asse drammatico, è una continua sfida per i direttori della fotografia) è raccontata sì dalla prova in crescendo di Michael McKean, ma soprattutto dai presagi disseminati nella sua cupa magione; il legame fra Jimmy e Kim, coppia romantica fuori da ogni cliché, vive non nelle risicate battute, ma nel silente dialogo fra le ali gemelle del loro studio legale.

Mai come in quest’annata, il New Mexico stilizzato e saturo che abbiamo conosciuto con Breaking Bad si raggela in linee ortogonali, gabbie che preludono al destino infausto dei protagonisti (il quale, in molti casi, ci è già noto): il centro commerciale, la sala del bingo, il cavalcavia che sovrasta i lavori socialmente utili. Ma soprattutto, il fast food Los Pollos Hermanos, iconico set della serie madre reintrodotto in una sequenza che è un saggio di regia, con un uso della profondità di campo inusuale per il piccolo schermo (dalla quale emerge, come dal limbo, Gus Fring; mirabile anche la gestione chirurgica delle ricomparse di personaggi storici di Breaking Bad, mai ammiccante, sempre d’impatto).

Dieci episodi compatti, imperniati sulla rivalità fraterna tra Chuck e Jimmy, che provoca il reciproco declino (fisico, mentale, giuridico): non solo per loro, ma per tutti i personaggi è tempo di crisi e disfacimento. Non a caso, la stagione si apre e si chiude su due distinti momenti di paranoico sfacelo: l’automobile squartata da Mike e l’appartamento divelto da Chuck, due immagini perturbanti (espliciti omaggi al memorabile finale di La conversazione) che diventano emblemi di una narrazione densa e stratificata.

STAGIONE 4

«Say my name» diceva Walt White in una celeberrima scena di Breaking Bad: per certificare la sua trasformazione nel titanico Heisenberg, per cancellare il mite chimico frustrato, era necessario che qualcuno pronunciasse il suo nuovo nome.

Lo speculare percorso di Jimmy McGill, che alla fine di questa stagione dello spinoff cambia ufficialmente il suo nome, è meno esplosivo ma più tragico: per lui, diventare Saul Goodman, avvocato (e) cialtrone, significa abdicare alla parte più nobile di sé e lasciare che vinca quella più truffaldina, quella che, in un futuro sempre più vicino (l’annata corre verso la collisione con la serie madre) aiuterà Walt a edificare il suo impero. Niente è più triste del sorriso da clown ipocrita di Jimmy, perché sotto il trucco vediamo che un po’ di lui è morto insieme al fratello Chuck.

La quarta stagione, dilatando a un anno l’arco di tempo narrato, esaspera la leoniana lentezza della serie e si dedica a due processi apparentemente diversi, ma similmente rarefatti: l’elaborazione (fallita) di un lutto e la costruzione di un laboratorio per la droga di Gus Fring. Il concetto è uno: il vuoto. Lo spazio lacerante dentro Jimmy (incapace di gestire la scomparsa dell’amato/odiato fratello, che colma ripiombando nel conforto dell’illegalità) e lo spazio buio dove una squadra di operai tedeschi (con la rocciosa supervisione di Mike) edifica la fabbrica della metanfetamina.

Intorno al vuoto sorge, pian piano, il familiare profilo di Breaking Bad, come in una origin story degli oggetti di scena (il laboratorio, i telefoni, il campanello di Hector...). Intorno al vuoto si calcifica l’anima di Saul Goodman, che, autocondannandosi a essere una farsa d’uomo, resta il personaggio più fulgidamente tragico della tv odierna.

STAGIONE 5

Jimmy McGill è morto, viva Saul Goodman. O no? La costola di Breaking Bad è ormai uno scheletro solido e complesso, e la parabola di Jimmy/Saul è sempre più distante da quella di Walter White/Heisenberg.

Nell’ultima puntata della scorsa annata, Jimmy - spezzato, senza saperlo riconoscere, dalla morte del fratello, e frustrato da un sistema che non pare concedergli di diventare un uomo migliore - passava al lato oscuro, decidendo di usare il suo talento come difensore-imbonitore per criminali in cerca di giustizia rapida. Svolta sancita dal nome Saul Goodman, anche se sulla valigetta c’è ancora la sua vecchia sigla, JMM (James Morgan McGill): gliel’ha regalata Kim, compagna di vita e complice di azioni che trasformano il pensiero laterale in danni collaterali.

Davanti al suo nuovo, esigente e rischioso cliente, il boss Lalo Salamanca, Saul giustifica il marchio spacciandolo per acronimo di Justice Matters Most, «la giustizia conta più di tutto»; Lalo suggerisce uno scioglimento più pragmatico, Just Make Money, «fai soldi e basta». Tra questi due motti (entrambi fasulli, entrambi coperture della vera identità di Jimmy/Saul) si muove il nostro antieroe in questa stagione decisiva (la prossima sarà l’ultima, quella che idealmente andrà a intersecare o almeno sfiorare la trama di Breaking Bad), ribadendo la fenomenale capacità di Gilligan e Gould di affidare senso a oggetti banali (citiamo solo la tazza termica con foro di proiettile il cui dettaglio vale più di qualsiasi dialogo), così come di snellire i riferimenti alla serie madre con un minimalismo evocativo (si pensi a quel «Salud» a bordo piscina: l’esatto opposto dell’eccesso di detto e mostrato che Gilligan ha sfoderato in El Camino).

Ed è in questa penultima annata che Better Call Saul si emancipa definitivamente da Breaking Bad: perché incastrati fra l’ambizione alla «giustizia prima di tutto» e il desiderio di «soldi e basta» sono soprattutto i personaggi creati ex novo, quelli di cui ancora non conosciamo il destino. Come Kim Wexler (a mani basse, il personaggio femminile meglio scritto della tv contemporanea) e Nacho Varga, i cui percorsi speculari (entrambi hanno raggiunto, l’una come avvocato l’altro come uomo del cartello, ruoli di prestigio da cui si trovano a voler fuggire) ispessisce il tema portante della serie, il dilemma etico tra la possibilità di seguire le regole restandone soffocati e la tentazione di sgarrare in nome di un obiettivo più alto.

La grandezza di Better Call Saul sta in questo suo respiro romanzesco: al centro non vi è l’eclatante metamorfosi di Walter White, ma il logorio dei valori, l’erosione della deontologia, la necessità delle bugie bianche (brillante l’inserimento, in una puntata chiave, di La signora del venerdì, che di etica e menzogne faceva commedia), che poco a poco si fanno pesi insostenibili, come le metaforiche borse trascinate nel deserto nel magnifico episodio diretto da Gilligan, Bagman. Non si diventa bad tutto d’un colpo: si perde un po’ di sé, un po’ per volta, finché non si fa, come recita il finale, qualcosa di imperdonabile.

STAGIONE 6

La recensione della sesta stagione di Better Call Saul, sempre con amore

IL TRAILER della sesta stagione

Just Make Money

Autore

Ilaria Feole

Ilaria Feole è nata nell’anno di Il grande freddo, Il ritorno dello Jedi e Monty Python – Il senso della vita e tutto quello che sa l’ha imparato da questi tre film. Scrive di cinema e televisione per Film Tv e Spietati.it. È autrice della monografia Wes Anderson - Genitori, figli e altri animali edita da Bietti Heterotopia.

LA SERIE

locandina Better Call Saul

Better Call Saul

Drammatico - USA 2015 - durata 47’

Titolo originale: Better Call Saul

Creato da: Vince Gilligan

Con Raymond McAnally, Giancarlo Esposito, Frank Deal, Richard Beal, Gabriel Rush, Bob Odenkirk

in streaming: su Netflix Netflix basic with Ads