Con l’opera prima Un figlio, presentata nella sezione Orizzonti di Venezia 76, il tunisino Mehdi M. Barsaoui orchestra un teso dramma famigliare: quello di una coppia disperatamente in cerca di un fegato che salvi la vita al loro bimbo, rimasto ferito in un attacco islamista.
Un figlio è ambientato nel 2011, subito dopo la Rivoluzione dei gelsomini e subito prima delle elezioni in Tunisia. Perché proprio questo segmento temporale?
Il 2011 è stato un anno fondamentale per il mio paese e per tutto il mondo arabo. In Tunisia stavamo vivendo una grossa transizione politica, sociale e culturale, e mi interessava la possibilità di istituire un parallelo tra la situazione del paese e quella della famiglia protagonista, a sua volta alle prese con una mutazione innescata dal segreto che viene a galla nel film. Trattare in maniera diretta e frontale quel che è successo in Tunisia a dire il vero non m’interessava molto... Non sono un politologo, quei fatti li ho vissuti da cittadino. Volevo piuttosto esplorare il riverberarsi di quel preciso contesto politico-sociale su una famiglia all’apparenza normale, il riflesso di quel che stava accadendo allora oltrefrontiera - in Libia - sulle loro vite.
Il film si apre con la scena di un picnic durante il quale Fares e Meriem discutono (anche) di politica con i loro amici: un contesto di leggerezza in cui la violenza della sparatoria irrompe in maniera brutale, perché attorno all’attacco dal punto di vista registico tu non costruisci alcuna suspense “preparatoria”. Un brusco ritorno alla realtà per tutta una classe sociale?
Assolutamente. All’inizio è come se la famiglia protagonista si stesse muovendo in una bolla: si trova nello spazio avvolgente della foresta insieme ad amici belli, giovani e benestanti - non è un caso che Fares e Meriem arrivino lì su un Range Rover: per un europeo può essere un dettaglio insignificante, ma devi sapere che in Tunisia bisogna essere molto ricchi per avere una macchina simile, corrisponde al valore di tre appartamenti... Sono la famiglia perfetta in una Tunisia perfetta, insomma, e anche dopo continuano a passare da una bolla all’altra, dall’automobile all’hotel alla camera. Tra loro e il mondo c’è sempre una barriera di sicurezza, che è poi quella che va in frantumi insieme al finestrino della macchina durante l’attacco, aprendo al loro confronto con una realtà e un paese che seppur inconsapevolmente stavano ignorando. Un figlio per me comincia lì, e infatti ho discusso a lungo coi produttori per difendere la mia scelta di piazzare i titoli di testa solo in quel momento, a dieci minuti buoni dall’inizio.
Con l’odissea di questa famiglia scandagli le contraddizioni di un paese in cui il retaggio di patriarcato e conservatorismo è forte, e in cui la religione interferisce con le vite dei cittadini a livello anche biologico...
Durante la stesura dello script, durata quattro anni, il lavoro più arduo è stato proprio tenere insieme queste due dimensioni. Da fuori Fares, Meriem e Aziz sembrano perfetti e in questo somigliano alla Tunisia, descritta spesso - dopo la Rivoluzione - come un esempio, un modello virtuoso di democrazia. Come per i miei protagonisti, però, quando grattiamo sotto la superficie viene fuori un’altra verità...
E infatti il film passa da un registro all’altro, chiedendo allo spettatore di rinegoziare continuamente la sua posizione morale rispetto alla vicenda.
Sì, l’idea era quella di disegnare una discesa disperata verso l’inferno, rimettendo in discussione l’etica e la morale man mano che procede il viaggio di Fares e Meriem. Volevo che lo spettatore tentasse di capirli, senza per questo giudicarli. Lo slittamento da un genere all’altro è venuto naturalmente, seguendo il ritmo della sceneggiatura.
Sami Bouajila interpreta un uomo la cui mascolinità va in pezzi, in bilico tra progressismo e un’ombra di conservatorismo che resta in agguato dentro di lui.
È di questo che parla Un figlio: di cosa voglia dire essere un uomo oggi in Tunisia, un uomo moderno, di quale sia il senso della modernità, e Sami non ha avuto paura di restituire la fragilità del personaggio. Se in un dramma arabo ci sono dei genitori che stanno perdendo il figlio, da cliché è la donna che crolla; io invece, con lui, ho voluto raccontare un uomo che va in pezzi tra le braccia di sua moglie, in contrasto con l’immagine tradizionale del maschio arabo.
Su di lei, invece, lo sguardo accusatorio della società...
Meriem viene giudicata da tutti, dal marito, dal medico, dai pazienti che la vedono come una specie di oggetto volante non identificato. Il suo è anche un viaggio di liberazione ed emancipazione, perché infine lei decide di rompere con tutti questi sguardi, di prendere in mano il suo destino.
Qual è il tuo film della vita?
Una separazione, senza dubbio. Il nome di Asghar Farhadi è saltato fuori a più riprese a proposito del mio film: a dire il vero, però, non mi piacciono troppo gli omaggi espliciti, di certo non mi sono mai messo lì a pensare «ora scelgo la stessa inquadratura che sceglierebbe Farhadi». Semplicemente il suo cinema - i film iraniani specialmente - mi piace al punto da esser penetrato nel mio inconscio, influenzando naturalmente la mia maniera di fare cinema.
IL FILM
Un figlio
Drammatico - Tunisia, Francia 2019 - durata 96’
Titolo originale: Un fils
Regia: Mehdi Bersaoui
Con Sami Bouajila, Najla ben Abdallah, Youssef Khemiri, Noomen Hamda, Qasim Rawane, Slah Msaddak
Al cinema: Uscita in Italia il 30/11/-0001
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta