Essere nell’età della ragione in contemporanea con lo scorrere, in tempo reale, della parabola artistica di quello che fra cinquant’anni sarà considerato uno dei migliori comici di sempre è una bella sensazione, di semplice immediatezza. Si assiste all’evoluzione fisiologica – ma assolutamente non scontata – di un guitto osservatore che cresce, cambia e si aggiusta di fronte ai nostri occhi. Senza rinnegare il proprio passato o la propria visione del mondo. Ma semplicemente rivolgendo su se stesso il medesimo sguardo impietoso e ironico con cui filtra il mondo e crea comicità.

Bill Burr urla le sue battute caustiche e geniali esattamente da 35 anni. Oggi, che di anni ne ha quasi 57, butta fuori il suo ultimo speciale (Drop Dead Years, lo trovate su Disney+) e miracolosamente – al contrario di una marea di colleghi incastrati per sempre nelle pose che hanno permesso loro di distinguersi e ottenere successo – riesce a cavare fuori dal buco il suo miglior lavoro. E ha successo in questa impresa complicata e improbabile proprio per il coraggio che ha dimostrato nel mettersi in gioco personalmente, superando i limiti generazionali e contestuali che lo hanno formato come essere umano e di cui ha parlato profusamente nella sua serie animata (F is for Family) e nel suo speciale precedente (Live at Red Rocks). Cercando di migliorarsi come essere umano senza per l’appunto snaturarsi o soffocarsi.

Detto semplice e diretto, come immaginiamo farebbe piacere anche a lui, durante tutta la sua vita adulta Bill Burr si è sforzato di essere sempre un po’ meno stronzo. In Drop Dead Years si toglie finalmente (del tutto) la maschera e confessa di aver avuto un’illuminazione razionale, e non solo di pancia: non vuole diventare un vecchiodimmerda. Con le sue idiosincrasie e la sua depressione, causate da un’educazione traumatica e priva di scambi costruttivi da un punto di vista emotivo, non vuole rendere la vita impossibile alle uniche persone che ama, la moglie e i figli. Come tutti, anche loro hanno una sola vita. Sono incastrati con lui per una serie di motivi contingenti e oggi il suo obiettivo è quello di non rendere miserabili anche loro. Questo significa mettersi in discussione. Anche da un punto di vista professionale.
Per un comico arrivato a quel punto di consapevolezza umoristica in cui sa di poter provocare una risata dicendo solamente “Comunque”, non è banale fare un percorso di introspezione cercando (a quasi sessant’anni) di andare a scovare i motivi reali che lo hanno spinto su un palco sin da giovanissimo. È strano avere più di mezzo secolo e cominciare solo ora a rendersi davvero di quanto si è incasinati. Ed è difficile prendere quest’accettazione e trasformarla in qualcosa di positivo ed esilarante.

Soprattutto a partire da qui: “Pensavo di aver scelto la stand-up perché amavo la commedia. Non è vero. Ho cominciato con la stand-up perché è la maniera più facile per entrare in una stanza piena di estranei e avere la loro approvazione facendoli ridere. Fa parte di una strategia. Mi sono sempre mosso per cercare le situazioni che potessero ferirmi il meno possibile e appagarmi il più possibile”.
Prima di calarvi uno Xanax per l’eccessiva malinconia, sappiate che il solito Bill Burr non è andato da nessuna parte. Resta sempre il comico che si chiede come mai lui, professionista della risata, nel 2025 non possa più chiamare “ciccione stronzo un ciccione stronzo che mi ha appena rubato l’ultima fetta di pizza e nega l’evidenza con l’alito che sa di salsiccia”; allo stesso tempo, però, è socialmente accettabile che un governo lanci un missile nelle generiche vicinanze di un posto dove crede si nasconda un nemico, anche se lì accanto ci sono dei bambini che giocano. E cari spettatori: niente applausi per dimostrare al vicino di posto la vostra virtù immacolata. Non siamo mica in un programma di Oprah Winfrey.

Lo speciale si chiama così, “gli anni in cui si muore stecchiti”, perché Burr è nel pieno di quell’età maschile (dai 49 ai 61) in cui per gli uomini è ancora troppo presto per morire di cause naturali, ma è perfettamente normale restarci secchi. Così, di botto e senza senso. Un’evenienza che non capita alle donne perché loro sono in grado di esprimere i loro sentimenti. Gli uomini che non hanno mai pianto, invece, ci rimangono secchi a 55 anni facendo quello che hanno sempre amato: regolarsi i peli del pube ascoltando gli AC/DC. Per secoli agli uomini non è stato concesso di essere tristi o di avere emozioni complicate. Potevano essere solo una delle due: o incazzati, oppure ok. Per lungo tempo, tutto quello che c’è stato in mezzo fra i due estremi era semplicemente considerato gay. Una debolezza. Tanto che abbiamo sempre inquadrato lo zio single quarantenne centauro come il più figo della famiglia, quando in realtà scappava prima dai pranzi di Pasqua per nascondere le lacrime che gli fanno da balsamo al codino mentre va a copulare con una donna tatuata e traumatizzata quanto lui.

Ne ha comunque per tutti, il buon Bill Burr. Ha scoperto la morbidezza di potersi mostrare fragile e triste, ma non ha perso la capacità di scagliarsi contro gli ipocriti – categoria di cui fa orgogliosamente parte. Di incazzarsi con gli indignati, utili come il due di bastoni quando c’è spade di briscola. Con i bianchi liberali, che sanno solo offendersi e credono fortemente nella riflessione inattiva che giustifica la libertà di parola garantita al Ku Klux Klan. Ma anche con i conservatori, razzisti che sparano giudizi un tanto al chilo e si inalberano quando gli si risponde con le loro stesse armi smussate di retorica fallace. Bill Burr è pur sempre il comico in grado di colpire botte e cerchio con la battuta meno democristiana possibile: “Questo Paese migliorerà veramente solo quando un maschio beta vegano con lo chignon da uomo si deciderà a guidare la sua Prius elettrica a una marcia del Ku Klux Klan e crivellare di colpi quegli stronzi razzisti smascherando la loro vera natura frocia. Lo so che ho detto ‘frocia’ ma non volevo pensaste vi stessi facendo una predica. Sono ancora sboccato come si deve”.
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