I più attenti osservatori, quelli che hanno una certa età e una certa esperienza di vita, sono consapevoli di quali sia l’unico vero miracolo compiuto da Gesù. A dispetto del più illustre curriculum nella storia dei curricula – guarigioni da lebbra, emorragie, febbri, sordità, cecità, paralisi e persino dal morbo della morte, moltiplicazioni di pani e pesci, acqua in vino, camminate sui laghi, punizioni per fichi e preveggenze – l’unico vero prodigio irripetibile compiuto da Gesù è un altro: aver scavallato i trent’anni e avere ancora le energie e le occasioni per mantenere dodici amicizie di un certo rilievo. Non conoscenze con cui ti trovi un fine settimana ogni tre giusto perché siete comodi con le macchinate e poi finite a parlare del mercato immobiliare, di ristoranti da provare o di quanto scadente sia stato quel villaggio vacanze a Monopoli dove pensavi di trovare Jerry Calà. Bensì amicizie intime e significative, con cui discutere di vita dopo la morte, di emozioni profonde, di tradimenti e di geopolitica palestinese. Un risultato virtualmente impossibile nel 2025. Men che meno in una città come Seoul, dove abitare in due quartieri diversi significa essere su fusi orari incompatibili.

La prima cosa encomiabile di Thirty-Nine, peculiare miniserie k-drama del 2022 che trovate su Netflix, è che riesce a essere credibile nel racconto di un legame d’amicizia fra tre donne trentanovenni in grado di reggere al passare del tempo, ai cambiamenti della vita, alle tragedie, ai cazzi e ai mazzi; la seconda cosa encomiabile di Thirty-Nine è che riesce a fare tutto questo senza esagerare (troppo) con le iperboli, puntando più sul concetto hollywoodiano di immedesimazione, piuttosto che su quello (più tipico del k-drama) di escapismo ancorato a personaggi archetipici in cui rispecchiarsi.

Thirty-Nine è una serie che riesce a essere tanto onesta quanto subdola. È subdola perché fin dalla premessa, entro i primi dieci minuti del primo episodio, annuncia che una delle tre protagoniste non arriverà a compiere 40 anni. Ma non dice quale e semina indicazioni ambigue. È onesta, perché gioca con il dubbio di chi, fra loro, potrebbe essere la persona su cui pende la spada di Damocle, ma in realtà lo fa solo per due puntate. Nel frattempo, erige con efficacia l’impalcatura delle protagoniste, su cui andrà a costruire la loro parabola di crescita, e le immerge nelle loro peculiari dinamiche – anch’esse, evidentemente, destinate a evolvere stante il finale che ci aspetta – circondandole di sottotrame e personaggi di supporto che arricchiscono il percorso.

Che Thirty-Nine non sia un k-drama come gli altri lo si intuisce fin da subito, peraltro, anche dal fatto che il sesso non venga trattato come una pestilenza, né come una faccenda di cui vergognarsi e di cui non fare nemmeno accenno per evitare ai bigotti all’ascolto un brutto caso di autocombustione da indignazione suprema. Se di solito, nella serialità coreana, bisogna aspettare quantomeno la penultima puntata per vedere le labbra di due personaggi innamoratissimi da secoli sfiorarsi a malapena e con estrema pudicizia, in Thirty-Nine sin dal primo episodio scattano grandi limoni e non solo. È un altro dettaglio che suggerisce un approccio diverso rispetto allo standard del genere: non c’è bisogno di rinunciare all’intrattenimento della drammatizzazione per ricercare un realismo superiore a quanto il linguaggio ci abbia abituati. Anche per questo motivo, la serie – che vanta nel cast la presenza di Son Ye-jin, già celeberrima protagonista di Crash Landing on You – ha polarizzato il pubblico globale. Amata da moltissimi nonostante la promessa di una storia senza lieto fine, per lo stesso motivo Thirty-Nine ha subito gli strali di chi non ha la pazienza di affrontare una narrazione diversa.

Dicevamo: tre trentanovenni che, miracolosamente, sono amiche sin da quando avevano 17 anni. Sono Mi-jo, direttrice di una lussuosa clinica di dermatologia – la più lussuosa tra le specializzazioni mediche – che da bambina è stata adottata da una splendida famiglia benestante e che dopo aver ripagato i debiti per l’apertura della sua attività decide di prendersi un anno sabbatico per andare negli Stati Uniti. La sta raccontando giusta?
Poi c’è Joo-hee, commessa in un negozio di cosmetica con la passione per l’alcol, che cerca troppo disperatamente di smettere di essere single e che si sente sempre l’ultima ruota del carro nel rapporto con le amiche. Sarà lei a dover affrontare una malattia terminale che la costringerà ad affrontare le sue irresolutezze?

E infine Chan-young, insegnante di recitazione fumantina e fumatrice che da anni e anni intrattiene una relazione bizzarra con un uomo sposato – per di più uno di quelli che indossano le giacche del completo con le maniche arrotolate al gomito. I due si frequentano platonicamente ed è ovvio che si amino, ma la vita ha reso complicato il coronamento del loro rapporto. Che sia lei la destinataria della sfiga suprema?
Nel corso delle sue dodici puntate, Thirty-Nine dipinge un quadro che diventa davvero chiaro solo quando è completo. Non è una storia sul lutto o sulla perdita. Quasi quasi non è nemmeno, o non solo, il racconto di un’amicizia. Ma è sicuramente la celebrazione di un concetto moderno di famiglia, per nulla legato agli obblighi genetici ma costruito sulle scelte e sulla volontà di donare amore alle persone con cui si risuona maggiormente.
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