Il libro MannHunters curato da Alessandro Borri - esaustiva bibbia dedicata a scandagliare l’opera e la personalità di Michael Mann e preziosa fonte di informazioni per questo articolo - riporta una citazione del critico John Wrathall secondo cui “Mann è il miglior regista d’architettura dai tempi di Antonioni”. Proviamo a dare credito a questa affermazione prendendo in esame solo uno dei suoi capolavori, Manhunter. Che si apre sulle immagini amatoriali di una delle case della suburbia di Atlanta ripresa dal serial killer Dollarhyde (soprannominato “dente di fata” nell’adattamento italiano) mentre ne sta violando gli ambienti.

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Manhunter - Frammenti di un omicidio

All’autore bastano pochi secondi per restituire la normalità “familiare” dell’alloggio: i gradini rivestiti di moquette su cui campeggia il peluche di un pinguino (la traccia di un bambino), la stanza dei figli riconoscibile dal caos di indumenti appallottolati su una moquette blu, poi la camera da letto in cui riposa una donna e, sullo sfondo, una porta a vetri che lascia intravedere un giardino.

Dopo i titoli di testa si passa a un’altra abitazione: quella, magnifica, dell’agente Graham e che all’epoca era la villa sull’isola di Captiva, al largo della Florida, in cui viveva l’artista neo-dada Robert Rauschenberg. Al progetto originale Rauschenberg aveva apportato delle modifiche, chiudendo il piano terra e aggiungendo porte scorrevoli vista mare. Questa necessità architettonica di aprirsi verso l’esterno, già resa volutamente visibile (nelle inquadrature manniane nulla è casuale) nella casa profanata dal maniaco, è in Manhunter indizio di equilibrio, tensione verso un ricercato contatto col prossimo.

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Definita da volumi di mirabile essenzialità e purezza, la costruzione affacciata sul golfo del Messico è presentata da un movimento all’indietro della macchina da presa: il piano che mostra l’agente e il figlio intenti a costruire un recinto si allarga a includere la villa, dove la moglie del protagonista si gode la vista dal terrazzo del piano superiore, retto da quattro agili pilastri collocati davanti al portico e alle vetrate del livello inferiore.

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Poco dopo, una scena straordinaria mostra di spalle le sagome della donna e del collega del marito dall’interno della residenza davanti a un tramonto mozzafiato. Segue un altro momento in cui la coppia, ancora davanti alle vetrate, è immersa in quel blu che tutti gli amanti del regista conoscono bene, e che sembra provenire contemporaneamente dal mare e dal cielo, lasciando pensare che non possa esserci niente di più bello. Sempre nel libro di Borri trovo questa dichiarazione del direttore della fotografia, Dante Spinotti, che a proposito di questa sequenza ricorda: “C’era questa vetrata sull’oceano e cominciai a inserire una serie di gelatine blu e dei neutri molto pesanti. Attraverso le gelatine si vedeva il mare con il sole in controluce e mi venivano in mente quelle scene in effetto notte girate sui piroscafi negli anni Trenta, con la luna che scintilla nel mare. Rauschenberg entrò e disse ‘Ah, ci andate giù pesanti col romanticismo’”.

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Dopo aver visitato la casa del massacro ripercorrendo i passi di Dollarhyde, Graham sa cosa dovrà affrontare: ha visto la moquette blu nella stanza dei bambini intrisa di rosso, ha visto il bianco della camera da letto macchiato del sangue delle vittime e poi si è guardato allo specchio, sentendosi sopraffatto. Un senso di soffocamento che Mann sottolinea appena dopo, inquadrando il detective nell’hotel in cui alloggia, l’Atlanta Marriott Marquis progettato da John C. Portman e all’epoca appena inaugurato, caratterizzato da un enorme atrio futurista alto 143 metri. Graham è ripreso all’interno del suo ascensore e dal basso, come se fosse schiacciato da una responsabilità a cui avrebbe voluto sottrarsi.

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L’inquadratura seguente mostra la capsula inabissarsi fra le mura curvilinee dell’albergo, in uno spazio affascinante e insieme opprimente. Giorni dopo, in cerca d’indizi che possano aiutarlo a catturare “dente di fata”, il poliziotto si reca dalla sua nemesi: quel dottor Lecktor (Lecter nel romanzo di partenza e nei film successivi) che lui stesso ha contribuito a rinchiudere in un carcere di massima sicurezza. La sua cella è un incubo bianco: bianchi sono i mattoni alle pareti, le sbarre che lo imprigionano, le lenzuola, la sua tenuta da detenuto. Ma bianco è anche il percorso che accompagna l’agente nella sua corsa verso l’uscita, come lo sono le rampe inquadrate dal regista mentre il suo “eroe” le percorre freneticamente alla ricerca di aria, e che non possono non ricordare quelle del Guggenheim di Lloyd Wright.

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Bianco, ancora, è il ponte all’esterno, in cui Graham cerca di riprendere fiato. Mann ribalta di senso quel colore simbolo di purezza, così come fa con quel luogo deputato all’arte e alla cultura che nella finzione diventa la prigione di un killer seriale. Si tratta dell’High Museum of Arty di Atlanta firmato Richard Meier, eletto tra le dieci migliori opere di architettura americana degli anni Ottanta: dodicimila metri quadri di pura “bianchezza” (il candore è la cifra progettuale di Meier), rivestiti di pannelli d’acciaio smaltato e il cui accesso è affidato a una lunga rampa che raccorda indoor e outdoor. Rispetto al Guggenheim, dove le rampe sono anche gallerie espositive, le pareti dell’High Museum presentano finestre atte a illuminare gli ambienti e offrire una vista sulla città. Meier sottolinea il valore della luce parlandone come di “un simbolo del ruolo del museo come luogo di estetica illuminazione e di valori culturali liberi da pregiudizi”. Valori che Mann sadicamente capovolge, facendo dell’opera una scatola chiusa attorno a tutto ciò che di maligno esiste al mondo.

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Al termine di questo viaggio nel bianco, è curioso notare come sulla scrivania del direttore del penitenziario si stagli una lampada da tavolo Tizio di Richard Sapper, capolavoro di equilibrismo progettuale e meccanico, qui ovviamente in versione total white. Il libro di Borri riporta ancora una dichiarazione in cui Spinotti racconta come tra le fonti di ispirazione per arredare l’appartamento di Dollarhyde ci fosse il lavoro di Raymond Loewy, fortunatissimo industrial designer la cui cifra estetica più riconoscibile è data dalla linea curva e dell’aerodinamicità delle sue creazioni. A Loewy potrebbe far pensare la morbidezza della poltrona visibile nella prima scena ambientata chez “dente di fata”, mentre il gigantesco assassino si prende cura del giornalista che ha sequestrato e alle loro spalle si staglia una delle fotografie spaziali di cui abbonda l’abitazione.

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A proposito del significato da attribuire alle case (nel cinema di Mann in generale e in Manhunter in particolare) Daniele Dottorini, nel libro di Borri, scrive che “gli spazi domestici possono aprirsi o proiettarsi all’esterno, come la casa di Will Graham [...] o chiudersi in loro stesse, come trappole mortali o segno dello squilibrio di chi le abita. Se la casa non apre alla visione, non permette agli spazi di proiettarsi sul mondo esterno, allora questa diventa labirinto, prigione, luogo mentale e a volte contorto, come la casa del serial killer di Manhunter.”. L’analisi è corretta: contrariamente alla villa di Graham e agli alloggi delle vittime di Dollarhyde, l’appartamento di quest’ultimo non presenta vetrate scorrevoli, ma pareti di mattoni di vetro smerigliato (materiale utilizzato per celare, non certo per mettere in relazione) e una serie di finestre a bilico semichiuse, che sembrano minacciosamente pronte a chiudersi come ghigliottine su chi volesse utilizzarle come vie di fuga.

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Non è un caso che Graham, per avere ragione del criminale, si serva di una di quelle finestre schiantandovisi contro e riducendola in frantumi, portando con sé una boccata di “esterno” nella tana del mostro. Quest’ultimo è sconfitto, la sua organizzazione spaziale va a pezzi in parallelo a quella mentale, e Mann lo sottolinea con un uso del montaggio che non ha eguali e che - ultimo prelievo dal volume di Borri - i critici Aaron Aradillas e Matt Zoller Seitz descrivono così: “combinati con improvvisi cambiamenti di velocità e di direzione, gli stacchi disturbanti fanno sembrare che il film si stia disintegrando sotto i nostri occhi, andando a brandelli nel proiettore. Questo film sta avendo un esaurimento nervoso”. È quello che succede quando uno spazio da sempre concepito come introiettato e introflesso subisce la brutale irruzione del suo contrario. Però nessuno avrebbe saputo metterlo in scena come Mann.

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Autore

Andrea Pirruccio

Si laurea in Storia e Critica del Cinema a Torino. Da oltre 20 anni fa parte della redazione della rivista Interni e dal 2022 collabora al dizionario Il Mereghetti. Da quanto ricorda, frequenta le sale da sempre, ma fa risalire il proprio imprinting cinematografico a un pomeriggio domenicale di tanti anni fa, quando i suoi genitori pensarono bene di portarlo a vedere 1997: Fuga da New York e, quando si accorsero che il film era stato sostituito da Pierino medico della SAUB, decisero di entrare lo stesso.

Il film

locandina Manhunter - Frammenti di un omicidio

Manhunter - Frammenti di un omicidio

Thriller - USA 1986 - durata 117’

Titolo originale: Manhunter

Regia: Michael Mann

Con William Petersen, Tom Noonan, Brian Cox, Kim Greist, Dennis Farina, Joan Allen