C’è un momento, in Fino alle montagne, il film in uscita al cinema a maggio per Officine Ubu, in cui Mathyas, ex pubblicitario canadese, neofita pastore, chiede a Élise se può “cambiare il finale”. Lei risponde: “In ogni caso, tu sei l’eroe”. Ed è lì, in quella frase semplice ma piena di significato, che si cristallizza l’anima di questo film: non è solo la storia di una fuga, ma di una ricostruzione. Non solo di sé, ma di un possibile altro modo di stare al mondo.
Con la regia sensibile e senza fronzoli di Sophie Deraspe, Fino alle montagne è molto più di un film sulla natura. È un film sulla verità. Quella personale, intima, fatta di rotture e trasformazioni. Ma anche quella collettiva, che ci riguarda tutti: la crisi ecologica, il vuoto esistenziale delle città, la ricerca di senso in un’epoca dominata dalla produttività e dal consumo.

Un’odissea a passo d’agnello
Mathyas (interpretato con sincerità e grazia da Félix-Antoine Duval) è un pubblicitario in burnout. Vive a Montréal, ma dentro sente il peso di una vita che non è più sua. Quando la salute lo costringe a fermarsi, decide di fare qualcosa di radicale: diventare pastore in Provenza. Non sa nulla del mestiere, ma è attratto da un’immagine idealizzata della vita rurale. Un sogno semplice, quasi infantile. Quasi sacro.
All’inizio, però, tutto crolla. I pastori non hanno tempo da perdere con chi sogna a occhi aperti. Il lavoro è duro, la solitudine taglia come un coltello, e la morte – tra animali malati e predatori – è parte della routine. Quando arriva Élise (Solène Rigot), una funzionaria statale stufa del proprio lavoro, le cose cambiano. La loro connessione umana, fatta di gentilezza e reciproca cura, dà nuova linfa al viaggio di Mathyas.
Insieme accettano un incarico: condurre più di 800 pecore in transumanza verso le Alte Alpi. È l’inizio di una vera e propria epopea pastorale, tra villaggi che si fermano al loro passaggio e montagne che li mettono alla prova. La natura, qui, è maestra, madre, minaccia e salvezza. Una presenza viva, non uno sfondo pittoresco.
Fragili, veri, in trasformazione
Mathyas, il protagonista del film Fino alle montagne, è l’anti-eroe perfetto: colto ma ingenuo, entusiasta ma impreparato, pronto a imparare. Il suo viaggio è quello di chi cerca una forma più autentica di esistenza, ma capisce che l’autenticità non è data, va conquistata. Non bastano le buone intenzioni. Servono mani sporche, notti gelide, decisioni difficili.
Élise, dal canto suo, è ben più di una semplice spalla narrativa. È lei che salva Mathyas quando lui crolla. È lei che, pur non sapendo nulla di pastorizia, si adatta, osserva, ascolta e infine agisce. Il film le dà spazio e profondità, costruendo una relazione tra i due che non ha nulla di scontato: non è una storia d’amore romantica, ma una storia d’amore per la vita ritrovata insieme.
Attorno a loro, Deraspe costruisce un mondo popolato da volti veri - spesso non professionisti - che donano al film un senso documentaristico. Sono persone vere, che sanno come si muove un gregge, come si affronta una tempesta, come si aiuta un agnello a nascere. La realtà qui è il cuore pulsante della finzione.

Rompere il ciclo, ripensare il futuro
Fino alle montagne non è solo una storia individuale. Parla di noi. Di un’epoca in cui la crisi ecologica non è più un concetto astratto, ma un’esperienza quotidiana. Di un sistema che ci chiede di “essere qualcuno”, ma spesso ci svuota nel farlo. E di una possibilità - non una soluzione magica - di scegliere altro.
La transumanza, al centro del film, è sia evento narrativo che metafora: un passaggio, un cambiamento di stato, un cammino collettivo attraverso un mondo in trasformazione. Ogni passo nella natura è un passo fuori da un sistema che ci ingabbia. Ma non è facile, né romantico: “la vita semplice”, qui, è faticosa, scomoda, ma piena.
C’è anche una riflessione sul linguaggio e la rappresentazione: Mathyas scrive lettere in cui abbellisce la propria esperienza, raccontando una versione poetica della realtà. È solo grazie alla presenza di Élise - testimone, alleata, amante - che quel racconto si fa più sincero, più vero. Come a dire che la verità non si trova da soli. Serve un altro sguardo per vederla.
Un racconto senza tempo
La regia di Sophie Deraspe non grida mai. Segue il ritmo della natura, dei corpi, dei passi. La fotografia di Vincent Gonneville è luminosa e terrena, senza patina: gli interni sono bui e densi, gli esterni aperti, pieni d’aria, quasi spirituali. La musica di Philippe Brault accompagna l’opera come una colonna vertebrale emotiva, mescolando classicismo e suggestioni eteree. Si sente che Deraspe ha messo i piedi nel fango prima di girare. Fino alle montagne è un film sentito, non solo pensato.
Le sequenze della transumanza sono da sole un piccolo capolavoro: greggi che avanzano tra strade asfaltate, ponti e piazze, mentre gli automobilisti si fermano e osservano. Un’immagine potente, quasi onirica, dove il tempo antico si sovrappone al presente, senza frizioni. Un cinema che respira, che cammina, che osserva.
Fino alle montagne è una fiaba, sì. Ma non per bambini. È una fiaba per adulti disillusi, per chi ha pensato almeno una volta di mollare tutto. È un film che non promette salvezza, ma scelte. E ci ricorda che la fatica, quando è per qualcosa che amiamo, può essere bellissima.
Sophie Deraspe firma il suo film più intimo e, forse, più urgente. Mathyas Lefebure ha regalato la sua storia al cinema, e il cinema, con pudore e passione, gliel’ha restituita. Cosa ci resta, dopo la visione? La voglia di respirare più a fondo. Di spegnere il telefono, di camminare, di scegliere, anche solo un poco, un’esistenza più nostra.
E di ricordare che, a volte, cambiare vita non è un sogno folle. È solo un altro modo, il più coraggioso, di restare vivi.
Filmografia
Fino alle montagne
Drammatico - Canada 2024 - durata 113’
Titolo originale: Bergers
Regia: Sophie Deraspe
Con Solène Rigot, Guilaine Londez, Félix-Antoine Duval, Bruno Raffaelli, Younes Boucif, Véronique Ruggia
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta