“Tanto tempo fa, nel profondo della foresta, viveva una bambina in un castello maledetto. Sua madre le ripeteva sempre che era troppo speciale per vivere con tutti gli altri fuori dal castello... Tuttavia, la bambina si sentiva come se fosse imprigionata. Così pregava la luna ogni giorno: ‘Per favore, mandami un bel principe che possa salvarmi e tirarmi fuori di qui. Verrà oggi? Verrà domani?’ La bambina lo aspettava ogni giorno.”
Insomma, ormai siamo più o meno sul pezzo e abbiamo capito che i k-drama, nella vita, cercano di fare abbastanza sistematicamente quella cosa lì: dare un’ insperata armonia pop a generi, toni, atmosfere, argomenti e personaggi che, solitamente, quando accostati producono dissonanze. Zombie e commedia romantica, melodramma e farsa, soap opera e thriller politico, studio accurati dei personaggi e macchiettismo da vaudeville. Quello che non avevamo mai visto, però, è un k-drama come It’s Okay to Not Be Okay, che senza snaturare gli assiomi del linguaggio – ovvero intrattenere, provocare compassione e permettere agli spettatori di identificarsi nei personaggi nonostante le loro situazioni iperboliche – riesce ad aggiungere all’impasto classico anche elementi scivolosi e complicati da trattare come l’horror psicologico, i disturbi mentali e il fantasma della figura genitoriale.

Lei è Ko Moon-young, il sogno bagnato di Tim Burton: è una celeberrima scrittrice di libri per bambini e la sua filosofia è che una favola è fantasia crudele che illustra in modo paradossale la brutalità e la violenza di questo mondo. È un’artista che traumatizza con sadica gioia piuttosto che consolare, che sceglie il ristorante in base a quanto affilati sono i coltelli che mette in tavola, che fa piangere le sue piccole fan correggendo i loro pregiudizi errati su quanto la vita sia rose e fiori, e nelle cui storie è sempre la strega a essere bellissima, mai la principessa. Ha anche un padre affetto da demenza – e ricoverato in clinica – di cui si disinteressa del tutto, vist’anche e considerato che lui ha tentato di strozzarla quando era bambina. Odia tutti tranne se stessa Moon-young e, grazie al superpotere di un disturbo antisociale di personalità, non ha difficoltà né remore ad allontanare con la sola imposizione della sgradevolezza arrogante qualsiasi essere umano che tenti di entrare in contatto con lei senza esserle in qualche modo utile.

Lui è Moon Gang-tae, lavora come operatore socio sanitario in un ospedale psichiatrico e ha dedicato la propria vita alla cura del fratello maggiore Sang-tae, abile illustratore affetto da una grave forma di autismo. Gang-tae è una specie di Buddha dal cuore d’oro e non perde mai la pazienza in nessuna circostanza, nemmeno di fronte alla più crassa delle ingiustizie. Sembra un santo, e in parte lo è. Ma sta anche reprimendo se stesso, oltretutto affrontando da solo un senso di colpa schiacciante e nascosto sotto strati e strati di emozioni soffocate. I due fratelli sono cresciuti con una madre vedova che ha inculcato in Gang-tae la necessità di sacrificarsi completamente per Sang-tae, e che è stata assassinata davanti agli occhi di quest’ultimo costringendo i ragazzi a una vita itinerante, in costante fuga da un trauma troppo violento per essere affrontato.

Angelo e demone si incontrano per la prima volta (per quanto ci riguarda) sotto il cliché di un albero di ciliegio in fiore che spruzza petali sublimi. Fortunatamente per lo spettatore, subito dopo essersi fissati intensamente negli occhi lei spegne la sigaretta nel caffè di lui e non perde l’innata (patologica) stronzaggine solo perché ha visto un ragazzo bellissimo con lo sguardo da cerbiatto addolorato. Moon-young, in ogni caso, scopre di essere ossessionata da Gang-tae. Vuole farlo suo. Lo ama e desidera ardentemente possederlo, come fosse un oggetto di sua proprietà. Inizia così un appassionante tira e molla di sedici puntate e dall’esito tutt’altro che scontato, dal momento che deve affrontare le complicazioni di cui si parlava in apertura.

Moon-youg, Gang-tae e Sang-tae sono perseguitati, psicologicamente e fisicamente, da un passato comune che li ha scarnificati e resi le persone disfunzionali che sono oggi. Sono prigionieri di un cervello per la cui chimica sballata non hanno alcuna responsabilità, ma nonostante l’evidenza e il buon senso la loro vita è comunque costellata di figure di potere ignoranti che non tollerano e non capiscono la malattia mentale. E, infine, rischiano ogni giorno di farsi schiacciare da figure materne e paterne che – presenti o assenti, consciamente o inconsciamente, con dolo o con colpa, malate a loro volta o meno – hanno causato danni immensi, continuando tuttora ad aleggiare come fantasmi impossibili da esorcizzare.
È difficile rispettare le regole d’ingaggio del k-drama e comunque riuscire a trattare argomenti del genere con grazia e senso dell’umorismo e del pathos a giuste dosi. It’s Okay to Not Be Okay ci riesce grazie a una sensibilità di scrittura speciale, che non scade mai nella condiscendenza, e a una messa in scena registicamente più varia rispetto ai canoni del genere, oltretutto interpolata da splendide animazioni che ibridano il passo uno con la computer grafica.
La serie tv
It's Okay To Not Be Okay
Commedia - Corea del Sud 2020 - durata 75’
Titolo originale: It's Okay to Not Be Okay
Con Kim Soo-hyun, Seo Ye-Ji, Oh Jung-Se, Park Gyuyoung, Jang Young-Nam, Kim Joo-Hun
in streaming: su Netflix Netflix Basic Ads
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